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Emil Cioran (Rășinari, 8 aprile 1911 – Parigi, 20 giugno 1995) è stato un filosofo, saggista e aforista rumeno, tra i più influenti del XX secolo.


Emil Cioran "Tratto da Al culmine della disperazione " Voce: Sergio Carlacchiani




EMIL CIORAN

INTERVISTA CON FERNANDO SAVATER

23.10.1977



UN APOLIDE METAFISICO


AFORISMI


CONVERSAZIONI


INTERVISTA CON FERNANDO SAVATER
Se ho capito bene, lei mi chiede perché non abbia scelto semplicemente il silenzio, invece di girargli attorno, e mi rimprovera di profondermi in lamenti quando farei meglio a tacere. Tanto per cominciare, non tutti hanno la fortuna di morire giovani. Il mio primo libro l'ho scritto in rumeno, a ventun anni, ripromettendomi per il futuro di non scrivere più niente. Poi ne ho scritto un altro, seguìto dallo stesso proposito. La commedia si è ripetuta per più di quarant'anni. Il motivo? Il motivo è che lo scrivere, per poco che valga, mi ha aiutato a passare da un anno all'altro, perché le ossessioni espresse si attenuano e in parte vengono superate. Sono certo che se non fossi stato un imbrattacarte mi sarei ucciso da un pezzo. Scrivere è un enorme sollievo. E pubblicare anche. Le sembrerà ridicolo, eppure è verissimo. Un libro è la tua vita, o una parte della tua vita che ti rende estraneo. Ci si libera contemporaneamente di tutto quello che si ama e soprattutto di tutto quello che si detesta. Le dirò di più: se non avessi scritto, sarei potuto diventare un assassino. L'espressione è una liberazione. Le consiglio di provare questo esercizio: quando odia qualcuno, quando le viene voglia di farlo fuori, prenda un pezzo di carta e scriva che X è un porco, un bandito, un farabutto, un mostro. Si renderà subito conto di odiarlo meno. E proprio quello che ho fatto io. Ho scritto per ingiuriare la vita e per ingiuriare me stesso. Il risultato? Mi sono sopportato meglio, e ho sopportato meglio la vita.

Ha qualcos'altro da aggiungere, Cioran?

Davvero non potrei dire di più... O forse sì! Di fatto è una questione di vitalità. Per farmi capire meglio devo parlare delle mie origini. Io ho molto del contadino; mio padre era un pope di campagna, e io sono nato in mezzo ai monti, nei Carpazi, in un ambiente molto primitivo. Il mio era un villaggio davvero barbaro, in cui i contadini sgobbavano tutta la settimana per poi sperperare la paga in una notte, bevendo come otri. Ero un ragazzo piuttosto robusto. Tutto quanto oggi è in me malaticcio a quell'epoca era molto vigoroso! Le interesserà forse sapere che la mia più grande ambizione a quel tempo era di vincere ai birilli. A dodici o tredici anni ci giocavo con i contadini, per soldi o per qualche birra. Passavo la domenica a giocare con loro, e mi capitava spesso di batterli, sebbene fossero più bravi di me, perché io, non avendo altro da fare, passavo la settimana a esercitarmi...
ROMANIA
Ha avuto un'infanzia felice?

Ecco una cosa molto importante: non conosco un solo caso di infanzia più felice della mia. Vivevo ai piedi dei Carpazi, giocando liberamente nei campi e sui monti, senza obblighi né doveri. È stata un'infanzia straordinariamente felice. Più tardi, parlando con la gente, non ho trovato nulla di equivalente. Avrei tanto voluto non andarmene mai da quel villaggio; non posso dimenticare il giorno in cui i miei genitori mi hanno caricato in una vettura per portarmi in città, alle scuole medie. È stata la fine del mio sogno, il crollo del mio mondo.

Della Romania che cosa ricorda innanzitutto?

Ciò che ho amato innanzitutto della Romania è stato il suo lato estremamente primitivo. Non mancavano, certo, persone civilizzate, ma io preferivo gli illetterati, gli analfabeti... Fino ai vent'anni niente mi piaceva di più che lasciare Sibiu per andarmene sui monti e parlare con i pastori, con i contadini totalmente analfabeti. Passavo il tempo a chiacchierare e a bere con loro. Credo che uno spagnolo possa capire questo lato primitivo, molto primitivo. Parlavamo di qualsiasi cosa, e riuscivo quasi subito a stabilire un contatto con loro.

Quali ricordi ha della situazione storica del suo paese ai tempi della sua gioventù?

Dunque. L'Europa occidentale era allora l'Impero austro-ungarico. Sibiu, compresa nella Transilvania, apparteneva all'Impero; la capitale dei nostri sogni era Vienna. In qualche maniera mi sono sempre sentito legato all'Impero... nel quale peraltro noi rumeni eravamo degli schiavi! Durante la guerra del '14 i miei genitori sono stati deportati dagli ungheresi... Psicologicamente, mi sento affine agli ungheresi, ai loro gusti e ai loro costumi. La musica ungherese, tzigana, mi commuove profondamente. Io sono un miscuglio di ungherese e di rumeno. Il popolo rumeno, curiosamente, è il popolo più fatalista del mondo. Quando ero giovane mi indignava quel ricorrere a concetti metafisici dubbi - come il destino, la fatalità per spiegare il mondo. Ed ecco che, ora, più invecchio più mi sento vicino alle mie origini. Oggi come oggi dovrei sentirmi europeo, occidentale; ma non è affatto così. Dopo una esistenza durante la quale ho conosciuto molti paesi e letto molti libri, sono giunto alla conclusione che era il contadino rumeno ad avere ragione. Quel contadino che non crede in niente e pensa che l'uomo sia perduto, irrimediabilmente perduto, quel contadino che si sente schiacciato dalla storia. Questa ideologia da vittima è anche la mia concezione attuale, la mia filosofia della storia. In sostanza, tutta la mia formazione intellettuale non mi è servita a nulla!

UN LIBRO UNA FERITA
Lei ha scritto: «Un libro deve frugare nelle ferite, anzi deve allargarle. Un libro deve essere un pericolo». In che senso sono pericolosi i suoi libri?

Dunque, stia a sentire: mi è stato ripetuto più volte che le cose che scrivo nei miei libri non si dicono. Quando è uscito il «Sommario [di decomposizione]», il critico di «Le Monde» mi ha mandato una lettera di rimproveri: «Lei non si rende conto, questo libro potrebbe finire in mano a dei giovani!» Che assurdità. A cosa serviranno mai i libri? A imparare? No di certo, per imparare basta andare a scuola. No; io credo che un libro debba essere davvero una ferita, che debba cambiare in qualche modo la vita del lettore. Il mio intento, quando scrivo un libro, è di svegliare qualcuno, di fustigarlo. Poiché i libri che ho scritto sono nati dai miei malesseri, per non dire dalle mie sofferenze, è proprio questo che devono trasmettere in qualche maniera al lettore. No, non mi piacciono i libri che si leggono come si legge un giornale: un libro deve sconvolgere tutto, rimettere tutto in discussione. Il motivo? Ebbene, io non mi preoccupo molto dell'utilità di quanto scrivo, perché veramente non penso mai al lettore: scrivo per me, per liberarmi delle mie ossessioni, delle mie tensioni e nient'altro. Poco tempo fa una signora, nel «Quotidien de Paris», diceva di me: «Cioran scrive quello che ognuno si ripete sottovoce». Io non scrivo con lo scopo di «fare un libro», perché venga letto. No, scrivo per disfarmi di un peso. Soltanto dopo, meditando sulla funzione dei miei libri, dico tra me che dovrebbero essere come una ferita. Un libro che lascia il lettore uguale a com'era prima di leggerlo è un libro fallito.

In tutti i suoi libri, accanto all'aspetto che potremmo definire pessimista, tetro, brilla una strana esultanza, una gioia inspiegabile ma corroborante, e persino vivificante.

È curioso, me lo hanno detto in molti. Non ho troppi lettori, ma potrei citarle varie persone che hanno confidato a qualche mio conoscente: «Mi sarei suicidato se non avessi letto Cioran». Quindi credo che lei abbia proprio ragione. Penso che ciò sia dovuto alla passione: io non sono pessimista, ma violento... è questo che rende vivificante la mia negazione. Infatti, quando prima parlavamo di ferita, non consideravo la cosa in una luce negativa: ferire qualcuno non equivale affatto a paralizzarlo! I miei libri non sono né depressivi né deprimenti. Li scrivo con rabbia e con passione. Se potessero essere scritti a freddo, allora sì che sarebbe pericoloso. Ma non posso scrivere a freddo, sono come un malato che, in ogni circostanza, supera febbrilmente la propria infermità. La prima persona che ha letto il «Sommario di decomposizione», ancora in manoscritto, è stato il poeta Jules Supervielle. Era già molto anziano, profondamente incline alla depressione, e mi ha detto: «È incredibile quanto mi abbia stimolato il suo libro». In questo senso, se vuole, sono simile al diavolo, che è un essere attivo, un negatore che mette in moto le cose...

Sebbene lei stesso abbia voluto distinguere la sua opera dalla filosofia propriamente detta, non è affatto arbitrario inserirla nel quadro di quelle attività diverse, autocritiche, che occupano il posto vacante della filosofia, dopo la sconfitta dei grandi sistemi dell'Ottocento. Che senso ha ancora la filosofia, Cioran?

Credo che la filosofia non sia più possibile se non come frammento. Sotto forma di esplosione. Ormai non è più possibile mettersi a elaborare un capitolo dopo l'altro in forma di trattato. Sotto questo aspetto Nietzsche è stato sommamente liberatorio. Ed è stato lui a sabotare lo stile della filosofia accademica, ad attentare all'idea di sistema. È stato liberatorio perché, dopo di lui, si può dire tutto... Oggi siamo tutti frammentisti, anche quando scriviamo libri apparentemente coordinati. Il che è poi in carattere con il nostro stile di civiltà.

Così come lo è con la nostra probità. Nietzsche diceva che nell'ambizione sistematica c'è un difetto di probità...

A proposito di probità, le dirò una cosa. Quando uno comincia a scrivere un saggio di quaranta pagine su un qualsiasi argomento, parte da alcune affermazioni preliminari e ne rimane prigioniero. Una certa idea della probità lo obbliga ad andare sino in fondo rispettandole, lo obbliga a non contraddirsi; tuttavia, a mano a mano che prosegue, il testo gli prospetta altre tentazioni, che è costretto a respingere, perché si allontanano dalla via prefissata. Siamo rinchiusi in un cerchio che abbiamo tracciato noi stessi. Ed è in questo modo che, volendo essere probi, si cade nella falsità, nella mancanza di veracità. Se questo succede in un saggio di quaranta pagine, che cosa non accadrà in un sistema! Qui sta il dramma di ogni riflessione strutturata: non permettere la contraddizione. E così si cade nel falso, si mente a se stessi per salvaguardare la coerenza. Se invece si compongono frammenti, è possibile dire nello stesso giorno una cosa e il suo contrario. Perché? Perché ogni frammento nasce da una esperienza diversa, e perché queste esperienze sono vere: sono l'essenziale. Si dirà che ciò significa essere irresponsabili; ma in tal caso lo si sarà al modo stesso in cui è irresponsabile la vita. Un pensiero frammentario riflette tutti gli aspetti della tua esperienza; un pensiero sistematico ne riflette uno solo: l'aspetto controllato, e per ciò stesso impoverito. In Nietzsche, in Dostoevskij si esprimono tutti i tipi di umanità possibili, tutte le esperienze. Nel sistema parla soltanto il controllore, il capo. Il sistema è sempre la voce del capo: proprio per questo ogni sistema è totalitario, mentre il pensiero frammentario rimane libero.

Come è avvenuta la sua formazione filosofica, quali sono i filosofi che l'hanno interessata di più?

Beh, da giovane ho letto molto Lev Sestov, che allora era assai noto in Romania. Ma quello che mi ha interessato di più, che ho amato di più - è la parola giusta - è Georg Simmel. So che Simmel è piuttosto noto in Spagna, grazie all'interesse che nutriva per lui Ortega, mentre in Francia è completamente ignorato. Simmel era uno scrittore meraviglioso, un magnifico filosofo-saggista. È stato amico intimo di Lukács e di Bloch, i quali ne furono influenzati e poi lo hanno rinnegato, cosa che trovo assolutamente disonesta. In Germania oggi Simmel è completamente dimenticato, neppure lo si nomina, ma ai suoi tempi fu ammirato da individui del calibro di Thomas Mann o Rilke. Anche Simmel è stato un pensatore frammentario. Il meglio della sua opera sono i frammenti. Mi hanno influenzato molto anche i pensatori tedeschi della cosiddetta «filosofia della vita», come Dilthey e simili. Naturalmente ho letto molto anche Kierkegaard, quando non era ancora di moda. Generalmente ciò per cui ho sempre nutrito il maggiore interesse è la filosofia-confessione. In filosofia come in letteratura mi interessano i casi, quegli autori a cui può essere attribuita la definizione di «caso» in senso quasi clinico. Mi interessano tutti quelli che sono avviati alla catastrofe, come pure quelli che sono riusciti a collocarsi oltre la catastrofe. La mia più grande ammirazione va a chi si è trovato sull'orlo del precipizio. Per questo motivo ho amato Nietzsche o Otto Weininer. O anche autori russi come Rozanov, scrittori religiosi che continuano a riaprire la ferita, tipo Dostoevskij. Gli autori che sono stati solo una esperienza intellettuale, come Husserl, non sono riusciti a lasciare in me un segno. Di Heidegger mi interessa il lato kierkegaardiano, non quello husserliano. Ma innanzitutto io cerco il caso: nella riflessione, nella letteratura il mio interesse va soprattutto a ciò che è fragile, precario, a ciò che sta crollando, e anche a ciò che resiste alla tentazione del crollo, ma mantiene la costante del pericolo...

Che ne dice dei «nuovi filosofi» francesi, spunto polemico del giorno?

Beh, non posso dire di conoscerli a fondo, ma nel complesso credo che i nuovi filosofi siano pensatori che cominciano a uscire dal loro sogno dogmatico...

Lei ha scritto uno dei suoi libri migliori sul tema dell'utopia.

Ricordo benissimo come si è destato il mio interesse per questo tema: è stato durante una conversazione in un caffè di Parigi con Maria Zambrano, negli anni Cinquanta. Ho deciso allora di scrivere qualcosa sull'utopia. Mi sono messo a leggere gli utopisti: Tommaso Moro, Fourier, Cabet, Campanella... All'inizio con un'esaltazione affascinata, poi con stanchezza, e alla fine con un tedio mortale. È incredibile il fascino che hanno esercitato gli utopisti sui grandi: Dostoevskij, per esempio, leggeva ammirato Cabet. Cabet, che era un perfetto imbecille, un sotto-Fourier! Tutti credevano nell'imminente avvento dell'età dell'oro; qualche anno, tutt'al più un decennio... Anche il loro ottimismo era deprimente, la loro visione eccessivamente rosea, quelle donne di Fourier che lavorano in fabbrica cantando... L'ottimismo utopista è francamente impietoso. Rammento, ad esempio, un incontro con Teilhard de Chardin: declamava con entusiasmo sull'evoluzione del cosmo verso Cristo, il punto Omega, ecc. Al che gli ho chiesto che cosa ne pensasse del dolore umano. «Il dolore e la sofferenza» mi ha detto «sono un semplice accidente dell'evoluzione». Me ne sono andato indignato, rifiutandomi di discutere con quel minorato mentale. Credo che l'utopia e gli utopisti abbiano avuto un aspetto positivo, nell'Ottocento, attirando l'attenzione sulla diseguaglianza sociale e sull'urgenza di porvi rimedio. Non dimentichiamoci che il socialismo in fin dei conti è figlio degli utopisti. Ma questi si basano su una idea erronea, quella della infinita perfettibilità dell'uomo. Mi sembra più pertinente la teoria del peccato originale, una volta sfrondata delle sue connotazioni religiose, a livello puramente antropologico. C'è stata una caduta irreparabile, una perdita che niente può colmare. In realtà, credo che ad allontanarmi definitivamente dalla tentazione utopista sia stato il mio interesse per la storia; la storia è l'antidoto all'utopia. Ma sebbene la pratica della storia sia essenzialmente anti-utopistica, è indubbio che l'utopia faccia avanzare la storia, la stimoli. Noi agiamo soltanto sotto il fascino dell'impossibile, il che significa che una società incapace di generare una utopia e di aggrapparvisi è minacciata dalla sclerosi e dalla rovina. L'utopia, la costruzione di sistemi sociali perfetti, è una debolezza molto francese; ciò che manca ai francesi in fatto di immaginazione metafisica è compensato dall'immaginazione politica. Fabbricano impeccabili sistemi sociali, ma senza tenere conto della realtà. È un loro vizio nazionale: il maggio del '68, per esempio, è stato una produzione costante di sistemi di ogni genere, uno più ingegnoso e più irrealizzabile dell'altro.

IL POTERE È IL MALE
L'utopia è, per così dire, il problema di un potere immanente alla società, non trascendente. Che cosa è il potere, Cioran?

Credo che il potere sia una gran brutta cosa. Sono rassegnato e fatalista di fronte al dato di fatto della sua esistenza, ma penso che sia una calamità. Senta, io ho conosciuto individui che sono arrivati al potere, ed è una cosa terribile. Terribile come uno scrittore che riesca a diventare celebre. È come portare un'uniforme; quando si porta un'uniforme non si è più gli stessi: ebbene, accedere al potere è come portare un'uniforme invisibile, sempre la stessa. Mi domando: perché un uomo normale o apparentemente normale accetta il potere, accetta di vivere in ansia dalla mattina alla sera, e via dicendo? Probabilmente perché dominare è un piacere, un vizio. Per questo non esiste praticamente nessun caso di dittatore o di capo assoluto che rinunci di buon grado al potere: quello di Silla è l'unico che mi venga in mente. Il potere è diabolico: il diavolo non era altro che un angelo con ambizioni di potere. Desiderare il potere è la grande maledizione dell'umanità.

Per tornare all'utopia...

La ricerca dell'utopia è una ricerca religiosa, un desiderio di assoluto. L'utopia è la grande fragilità della storia, ma anche la sua grande forza. In un certo senso, è l'utopia a riscattare la storia. Prenda ad esempio la campagna elettorale in Francia: se non fosse per la sua componente utopistica sarebbe una zuffa da bottegai... Vede, io non potrei essere un politico, perché credo nella catastrofe. Per parte mia, sono certo che la storia non è la via al paradiso. Eppure, se sono un vero scettico, non posso neanche essere sicuro della catastrofe... Diciamo che ne sono quasi sicuro! Ecco perché mi sento distaccato da qualsiasi paese, da qualsiasi gruppo. Sono un apolide metafisico, un po' come quegli stoici della fine dell'Impero romano che si sentivano «cittadini del mondo», il che è come dire che non erano cittadini di nessun luogo.

Lei non ha abbandonato solo la sua patria ma anche, e questo è più importante, la sua lingua.

È il più grave infortunio che possa capitare a uno scrittore, il più drammatico. Al confronto le catastrofi storiche non sono niente. Ho scritto in rumeno fino al 1947. Quell'anno stavo in una casetta nei pressi di Dieppe, e traducevo Mallarmé in rumeno. Improvvisamente mi sono detto: «Che assurdità! A cosa serve tradurre Mallarmé in una lingua che nessuno conosce?». Ed è lì che ho rinunciato alla mia lingua. Mi sono messo a scrivere in francese, il che è stato molto difficile, perché la lingua francese non si addice alla mia indole: io ho bisogno di una lingua selvaggia, di una lingua da ubriachi. Il francese è stato per me come una camicia di forza. Scrivere in un'altra lingua è un'esperienza terrificante. Si riflette sulle parole, sullo stile. Quando scrivevo in rumeno, lo facevo senza rendermene conto, scrivevo e basta. A quel tempo le parole non erano indipendenti da me. Quando mi sono messo a scrivere in francese, tutte le parole mi si sono imposte alla coscienza; le avevo davanti a me, fuori di me, nelle loro cellette, e andavo a prenderle: «Tu, ora, e adesso tu». Un'esperienza simile l'ho avuta appena arrivato a Parigi. Alloggiavo in un alberghetto del Quartiere Latino, e il primo giorno, quando sono sceso alla reception per telefonare, ho trovato il gestore dell'albergo che stava decidendo il menù per il pranzo con la moglie e il figlio: lo preparavano come fosse stato un piano di battaglia! Rimasi stupefatto: in Romania mi ero sempre nutrito come un animale, voglio dire in modo inconscio, senza badare a che cosa significasse mangiare. A Parigi mi sono reso conto che mangiare è un rituale, un atto di civiltà, quasi una presa di posizione filosofica... Allo stesso modo lo scrivere, in francese, ha smesso di essere un atto istintivo, come era quando scrivevo in rumeno, e ha assunto una dimensione deliberata, così come ho anche smesso di mangiare in modo innocente... Cambiando lingua, ho subito liquidato il passato: ho completamente cambiato vita. Ancora adesso mi sembra di scrivere in una lingua che non è legata a niente, una lingua senza radici, una lingua di serra.

Cioran, lei ha parlato spesso della noia. Che ruolo ha avuto la noia, il disgusto, nella sua vita?

Posso dire che la mia vita è stata dominata dall'esperienza della noia. Un sentimento che conosco sin dall'infanzia. Non è la noia che si può combattere con le distrazioni, la conversazione o i piaceri, è una noia che si potrebbe definire fondamentale; e che consiste in questo: più o meno bruscamente, a casa propria o in casa d'altri, o davanti a un bellissimo paesaggio, tutto si svuota di contenuto o di senso. Il vuoto è in noi e fuori di noi. L'intero universo è annullato. E niente più ci interessa, niente merita la nostra attenzione. La noia è una vertigine, ma una vertigine tranquilla, monotona; è la rivelazione della futilità universale, è la certezza, spinta fino allo stupore o fino alla chiaroveggenza suprema, che non si può, non si deve fare niente né in questo mondo né in quell'altro, non esiste al mondo niente che possa servirci o soddisfarci. A causa di questa esperienza - non costante ma ricorrente, dato che la noia viene per accessi, ma dura molto più a lungo di una febbre - non ho mai potuto fare niente di serio nella vita. Per la verità, ho vissuto intensamente, ma senza mai potermi integrare all'esistenza. La mia marginalità non è fortuita, ma essenziale. Se Dio si annoiasse, rimarrebbe pur sempre Dio, un Dio, però, marginale. Ma lasciamo stare Dio. Da sempre il mio sogno è stato quello di essere inutile, e inutilizzabile. Ebbene, grazie alla noia ho realizzato quel sogno. Ma devo fare una precisazione: l'esperienza che ho descritto non è necessariamente deprimente, perché a volte è seguita da una esaltazione che trasforma il vuoto in un incendio, in un inferno desiderabile...

(E mentre mi appresto a uscire, Cioran insiste)

Non dimentichi di dire che io sono soltanto un marginale, uno che scrive per svegliare. Lo riferisca: i miei libri aspirano a svegliare.

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