Oggi ho conosciuto di persona questo giovane, nonché interessantissimo poeta, quì sotto in suo articolo sulla poesia ...
Matteo Marchesini: Quel che resta della poesia. La poesia del corpo. La pseudopoesia. La mutazione genetica dei poeti italiani. La “poeticità privatistica” e l’autoreferenzialità gergale. La pratica dell’emulazione: Amelia Rosselli e Giovanni Pascoli. La parodia involontaria della poesia. La pseudolirica dei poeti tardo-lombardi
C’è
un racconto di Martin Amis in cui si immagina che le sorti degli
sceneggiatori e dei poeti siano esattamente rovesciate rispetto a quelle
reali. Gli sceneggiatori si muovono in un malsano sottosuolo
letterario, arrabattandosi tra reading, riviste semiclandestine e opere
pubblicate alla macchia. I poeti, invece, lanciano le loro composizioni
come fossero film. Contesi da grandi produttori, guadagnano cifre enormi
tra “diritti secondari” e “royalties sui sequel”. Girano in limousine,
scelgono i gadget con cui promuovere una ballata, registrano l’incasso
clamoroso di sonetti intitolati “E’ l’alto suo disdegno di iersera”, e
decidono la cesura di un verso con un agguerrito team aziendale. Il
racconto di Amis suona beffardo soprattutto a orecchie italiane, dato
che da noi, intorno alla poesia, non si riunisce nemmeno quel pubblico
di lettori limitato ma vivace che caratterizza il meno asfittico mondo
letterario anglosassone. In Italia, ormai, dei poeti si parla con
imbarazzo. Oggi il poeta italiano non solo è emarginato, ma non è
neanche considerato uno scrittore (dei narratori che compongono versi si
dice: “scrittore e poeta”, identificando la narrativa con la scrittura
tout court).
In un paese in cui tutti scrivono poesie e nessuno le legge,
riuscire a farsi chiamare poeti sembra troppo facile, cioè irrilevante.
La causa e insieme l’effetto di questa situazione è la progressiva
perdita della capacità di distinguere i poeti veri. Non a caso, anche
tra gli studiosi di letteratura si è creata una divisione dei ruoli
netta quanto aberrante. Da un lato c’è il critico di narrativa, non di
rado un uomo di mondo che ama legare la sua firma ai libri di cui
“tutti” parlano, e dunque diffida della lirica, che del resto non si
presta alle sue analisi contenutistiche e poco sensibili alla forma.
Dall’altro lato c’è il critico di poesia, non di rado un critico
semifallito, impegnato a difendere il suo minimo orticello con discorsi
che, a chi guardi da fuori quell’“atomo opaco” che è il mondo dei poeti,
non possono non sembrare bizzarri e futili come lo sono quelli degli
iniziati a qualche hobby astruso – come i gerghi di certi collezionisti,
dei somelier o dei maniaci di giochi di ruolo. I due tipi di critici
finiscono per credere che possa esistere una letteratura sana fatta di
compartimenti stagni. E certo è vero che oggi la prosa italiana è
composta da narratori o saggisti che ignorano la contemporanea poesia
italiana: ma si tratta, appunto, di una circostanza patologica, che
impoverisce sia i prosatori che i poeti.
In generale, la poesia non è più considerata un elemento indispensabile per capire la nostra cultura.
La conseguenza è che i poeti veri vivono una condizione frustrante di
mancato riconoscimento. Siccome latita un’attendibile polizia
antisofisticazione che separi i loro prodotti da quelli degli impostori,
si trovano di continuo svalutati: la moneta cattiva scaccia quella
buona. Inoltre, poiché le collane dei pochi editori ben distribuiti
vengono ormai gestite con criteri di pessimo gusto – spesso sulla base
di meri rapporti d’amicizia e di potere – chi non può rivendicare
posizioni di forza, difficilmente arriva in libreria. D’altra parte, la
visibilità non è più proporzionale alla qualità: oggi il catalogo di
Einaudi e Mondadori non vale molto più del catalogo di uno qualunque di
quei piccolissimi stampatori che hanno nomi improbabili tipo “L’orcio” o
“Selva oscura”.
Così, capita di essere riconosciuti poeti per le ragioni sbagliate,
e spesso senza merito. Per esempio – e qui la patologia italiana è
ingigantita dalla mediatizzazione – si è considerati poeti a causa delle
proprie vicende biografiche: come Alda Merini, della cui produzione si
può dimenticare un buon novanta per cento senza danno. In presenza di un
minore appeal esistenziale, aiuta la longevità, o l’accurata gestione
di una fama acquisita quando esisteva ancora una parvenza di dibattito
critico, o magari l’insistenza su certi stilemi immediatamente
riconoscibili. Meglio poi se questa accurata gestione e questa
insistenza manieristica si appoggiano a un potere editoriale (dal caso
nobile di Sereni si è passati a Maurizio Cucchi e Antonio Riccardi), a
un più generale potere “organizzativo” (vedi Davide Rondoni) e magari
universitario (si pensi a Franco Buffoni): ma qui si torna dalla poesia
all’estrinseco dato biografico, di una biografia pubblica anziché
esistenziale.
Se si eccettuano questi casi, è
assai scarsa la disponibilità all’ascolto di una società letteraria
che, come la società tutta, tende a rispettare solo ciò che ha un
immediato riscontro mediatico. La poesia, in questo senso, non
vale a formarsi un’identità. Semmai può essere la ciliegina sulla torta,
dove la sostanza della torta sta in una “carriera” basata su altre
specialità – una carriera da romanzieri, da filosofi, da cantanti o da
politici (e si aggiunga pure qualunque altro “mestiere” noto e magari
pittoresco). L’importante, insomma, è che il poeta non sia solo poeta,
ma semmai “anche poeta…”: come dice, sputando, la signorina Silvani,
mentre Fantozzi le recita versi di Lorenzo de’ Medici spacciati per “una
mia cosettina giovanile”.
D’altronde,
la sufficienza è più che motivata, davanti ai tanti pseudopoeti che
scelgono questo genere, in sé difficile, solo perché manca una vera vigilanza sulla qualità dei prodotti,
e quindi perché li deresponsabilizza. A chi non vuole cimentarsi con le
fatiche della forma, la “poesia” offre oggi un triste ma accogliente
rifugio, un ambiente di rassicurante anarchia. Quella lirica moderna che
un tempo servì a esprimere il disagio dell’io di fronte alla società
borghese, nella nostra società compiutamente massificata diventa il
mezzo più facile per esprimere una pseudocreatività quanto mai
piccolo-borghese. Come ci sono i pittori della domenica che rifanno
Picasso o gli informali (viene spontaneo, per la dose di arbitrarietà e
impostura, il paragone con l’arte: solo che qui manca la spietatezza del
mercato) così abbondano i versificatori che imitano a costo zero le
oltranze della poesia otto-novecentesca.
Questa mutazione genetica dei poeti italiani è iniziata dopo la generazione dei nati negli anni Trenta.
Di solito in questa generazione – si pensi ai Raboni, ai Sanguineti – i
poeti erano ancora intellettuali a tuttotondo. Ma a partire dai nati
negli anni Quaranta, lo scenario è cambiato. Superando le inibizioni
dovute alle neoavanguardie prima, e poi al rifiuto della letteratura che
si respirava nel clima sessantottino, gli autori della generazione di
Dario Bellezza hanno proposto una lirica molto meno sorvegliata. Negli
anni Settanta, la poesia è rinata come “confessione” o eclettica euforia
linguistica, come esibizione individualistica o scoria
postavanguardista stilisticamente depotenziata. Era una lirica
informe, naturalmente postmoderna, nata da una situazione che anche
Pasolini e Montale contribuirono a definire col non-stile dei loro
ultimi libri, e che fu ben fotografata nel ’75 dall’antologia
“Il pubblico della poesia”, in cui i trentenni Berardinelli e Cordelli
inserirono i loro coetanei. Pare che leggendo l’antologia, e le
autopresentazioni dei poeti, Fortini abbia detto che questi nuovi
letterati gli sembravano un po’ simili ai pittori, ormai incapaci di dar
ragione della loro opera e di inserirla in un orizzonte culturale. Come
ha notato Berardinelli, già a questa altezza è diminuita la coscienza
critica: si è imposta una nuova naiveté, una creatività sregolata e
autoreferenziale.
Da
allora molte cose sono cambiate. Ma l’autoreferenzialità non ha fatto
che aumentare, e la coscienza critica non ha fatto che diminuire.
All’anarchia post-’68 hanno messo fine una serie di piccoli “colpi di
stato”, con cui gli autori più abili a promuoversi sono riusciti a
ottenere una canonizzazione puramente editoriale. Intanto è dilagato il
bovarismo: che presto, esauritasi l’atmosfera “confessionale”, ha
trovato di nuovo espressione nella koinè genericamente ermetica e nel
tenue cronachismo lirico che da molti decenni egemonizzano il nostro
poetese colto. Molti autori, dopo gli esordi informali e sub-letterari,
si sono messi a fare i formalisti, gli iperletterari, gli esoterici. Ma i
presupposti, come ha notato Mengaldo, “restano quelli di una poeticità privatistica ed effusiva”.
E’ in questa situazione che la poesia italiana si è svalutata.
La “poeticità privatistica” e l’autoreferenzialità gergale hanno reso i
suoi contorni sempre più opachi. La nuova lirica non era più
memorabile, come quella della prima metà del Novecento; ma non aveva
alle spalle nemmeno le impalcature ideologiche che identificavano i non
memorabili esperimenti neoavanguardistici. Rischiava, insomma, di essere
irriconoscibile. A questo rischio, molti autori hanno ovviato
producendo oggetti estremamente stilizzati, muniti di un involucro
esterno in grado di renderli subito percepibili come “Poesia”. Anziché
comporre poesie vere, cioè organismi complessi e resistenti alle
riletture, si sono limitati a proporre un’Idea astratta di poesia – a
inventare un’etichetta che dovrebbe garantire da sola, al lettore
distratto, di trovarsi nel magico mondo della Lirica. Coi resti delle
poetiche novecentesche, questi autori si sono costruiti ognuno una
maschera, per recitare sempre lo stesso ruolo nella commedia dell’arte
letteraria. Spesso, senza averne la statura, hanno imitato in questo
Pasolini, che, come diceva perfidamente Raboni, è stato poeta in tutto
fuorché nelle sue poesie: hanno cioè surrogato la rigorosa costruzione
dei testi con atteggiamenti, con pose, o con una patina decorativa e
“poetizzante” stesa su versi di per sé assai sciatti. L’aura perduta del
testo è stata insomma sostituita dal mito dell’Autore, o
dall’insistenza su qualche stilema che funge da logo pubblicitario.
Giorgio Manacorda ha esemplificato così la situazione: “tutti oggi si
mettono in posa: Bellezza faceva sul serio il maledetto (…) Zeichen fa
sul serio il dandy, De Angelis fa sul serio il Poeta, Conte fa sul serio
il vate, Magrelli fa sul serio il poeta-intelligente, la Lamarque fa
sul serio l’ingenua, e Mussapi fa sul serio il nulla”; e D’Elia,
potremmo aggiungere, con le sue sgangherate terzine fa sul serio
l’éngagé pasoliniano.
Alcuni di questi autori trasformano la Poesia in un feticcio, proprio perché non credono nelle singole poesie.
Anziché cercare di volta in volta la forma adeguata a un contenuto
urgente, con onesta perizia tecnica e artigianale, vogliono imporre
un’idea aprioristica della lirica, stilizzando e “mettendo in posa” le
idee e i temi che fiutano superficialmente nell’aria. Questo vizio
insieme contenutistico e formale è del resto ben radicato nelle patrie
lettere. Sessant’anni fa, in “Il poeta col suo io”, Leo Longanesi ne
diede una rappresentazione esilarante. In questa parabola, i passaggi
dal clima carduccian-pascolian-dannunziano a quello ermetico, dalla
debole rinascita di una poesia “civile” ai nuovi ripiegamenti elegiaci
post-neorealisti, vengono ferocemente ridotti ai minimi, tipici termini,
con una velocità da gag. Proviamo a riassumerla e a immaginarne una
continuazione, proponendo qualche parodia delle mode poetiche più
recenti. Ecco come inizia Longanesi: “Il poeta sentì un nodo allo
stomaco, poi un alito fresco sfiorò la sua fronte, poi il suo cuore
sembrò uscire dal caldo astuccio del suo petto. Era giunta
l’ispirazione, finalmente! Allora prese la penna, e scrisse:
Ahi, fredda beltà, quanto mi costi!
Lento il tuo sguardo si posa sulle cose,
e squilla il geranio della tua bocca.
Lento il tuo sguardo si posa sulle cose,
e squilla il geranio della tua bocca.
Poi si
arrestò e inseguì vaghe immagini che andavano e venivano come folate di
vento. Poi bagnò la penna nel calamaio e al sostantivo geranio aggiunse l’aggettivo rosso: ‘e squilla il rosso geranio della tua bocca’”.
Rileggendosi,
però, il poeta si accorge di essere ancora invischiato nel
carduccianesimo. Maledetta lingua italiana! Ma proprio l’esasperazione
gli dà l’energia per compiere la sua rivoluzione lirica, per far
implodere la sua levigata forma ottocentesca. Approda così
all’essenziale Novecento ungarettiano o quasimodiano:
Sulla tua fredda beltà
squilla
il rosso geranio
della tua bocca.
squilla
il rosso geranio
della tua bocca.
Da qui, il
gusto della scomposizione gli prende la mano. Mette le parole “in fila
indiana, poi per quattro, poi per tre”. Ma mentre si perde nei suoi
giochi novecentisti, l’atmosfera ermetica è sconvolta dal vento
impetuoso della Storia. E come può lui continuare a cantare tra le
nuvole? Quasimodo e compagni insegnano. Ecco allora che l’engagement
trasforma così i versi del nostro:
Sulla tua fronte,
Stalin,
squilla
il rosso geranio
della mia bandiera.
Stalin,
squilla
il rosso geranio
della mia bandiera.
Stavolta il
poeta sente “di aver colpito una musa al cuore”: esce dalla torre
d’avorio e si iscrive al PCI. Ma presto si sparge la voce che i
comunisti rischiano di essere messi fuorilegge. Per fortuna, non ha
ancora stampato la sua ode! Basta, basta politica. E’ ora di rifugiarsi
in campagna. Cos’è più un’ideologia? Conta il rimpianto, il puro
sentimento elegiaco dettato da Natura! Così il poeta torna alla vecchia
metrica distesa e zoppicante:
Nella livida luce dell’Avemaria,
si spegne il suono delle tue campane,
o triste pianura di Lombardia.
si spegne il suono delle tue campane,
o triste pianura di Lombardia.
E questi
versi, il poeta li ripeté più volte (…) e sentì che gli intenerivano il
cuore, tanto più che in quel momento egli stava proprio camminando su un
vasto prato di erba, dove pascolavano quattro mucche: e tanto il prato
quanto le mucche erano di sua proprietà”.
Con questa
ironica e quasi marxistica nota sull’orgoglio di casta, si chiude la
parabola longanesiana. E mettendo insieme i geranii politici, e le
relative bandiere, con la “livida luce” elegiaca del finale in terzine,
si vede che il corrosivo Leo aveva già fiutato Pasolini. In realtà, se
si modifica la geografia e si aumenta la goffaggine, quella terzina
potrebbe ormai appartenere all’epigono pasoliniano D’Elia. Continuando
il gioco, tentiamo allora una parodia di questo poeta, che canta le
sconfitte della sinistra immergendole in un fiacco paesaggismo
adriatico. Potrebbe dire il D’Elia: “Nella livida luce dei rosari/si
spegne il mare sulla Romagna che trema/all’ultima voce dei
funzionarii…/Ah, per chi suona la nostra campana, D’Alema?/Eravamo
ginestre aggrappate all’orlo qui/del burrone tra il settantasette e il
Pci…”.
Ma il caso
D’Elia è abbastanza isolato. Altre sono le strade tipiche, imboccate
nell’ultimo mezzo secolo dal “poeta col suo io”. Negli anni Sessanta, si
è imposta la neoavanguardia di Sanguineti e sodali. Allora, forse, il
camaleontico poeta di Longanesi vi avrebbe aderito, ragionando in questo
modo: “basta, non è più tempo di rifugi bucolici. Ha vinto
l’alienazione. Sì, lo sento: mi è sottratto qualunque rapporto naturale
con le cose. Non mi resta che rispecchiare l’alienazione che provo
attraverso un’alienazione scientifica del linguaggio”. Così
sdottoreggiando, avrebbe trasformato i vecchi versi in un sanguinetiano
pastiche citazionista. Una cosetta del genere:
Ave Maria livida Palus o luce istituzione o
istituto totalità litania nel cielo che è così bello quando è
bello cioè bellico sotto una campana campa il Kampf
che è Dein non Mein di me troppo melancolico per spargere
sangue che squilla come il geranio ammainato del comitato Central Park
istituto totalità litania nel cielo che è così bello quando è
bello cioè bellico sotto una campana campa il Kampf
che è Dein non Mein di me troppo melancolico per spargere
sangue che squilla come il geranio ammainato del comitato Central Park
Ma
nel frattempo, a partire dalla lezione di certo Sereni e di certo
Raboni, di Nelo Risi, Luciano Erba e Giorgio Orelli, si è formata
un’altra koinè, quella “lombarda”. Per il pallido lirismo del “medio
poeta italiano”, è un vero uovo di Colombo. In sostanza,
replicando gli aspetti esteriori di questi autori – certo grigiore,
certa arida oggettività, certo prosaico cronachismo appena innalzato da
un tono di vaga elegia domestica – il poeta medio li sfrutta per
legittimare la propria aridità formale, la propria povertà stilistica e
la propria impotenza metaforica. Sotto le insegne lombarde, con minimo
sforzo prosodico, può semplicemente elencare gli oggetti che gli sono
cari, magari condendoli qua e là con qualche incongruo grumo analogico,
cioè non abbandonando del tutto il cordone ombelicale che lo lega alle
sublimazioni ermetiche. Ne esce una poesia insieme esile e farraginosa,
che ostenta la sua natura di referto “dal vero”, ma lascia emergere qua e
là un grezzo sentimentalismo. La koinè lombarda ha nutrito i versi
depressi di Cucchi e Riccardi, e quelli spigolosi di Buffoni. Fiutando
questa possibilità, negli ultimi decenni il poeta longanesiano si
sarebbe forse detto che era l’ora di mettere en abyme la mediocrità
piccolo-borghese con una poesia altrettanto mediocre e incolore. Lo
immaginiamo mentre rielabora i suoi vecchi temi, così lombardeggiandoli:
C’è della gente che dice Avemaria
nella pianura con la nebbia
si vede qua e là un lago
oh lucci di nostalgia
quella domenica del ’71 tra le rive in amore
e due gerani innaffiati al balcone da una pensionata mentre
“Ehi, largo” dice da un camion un autista
ai passanti intirizziti
che nei cappotti coi faldoni si muovono
e portano al prete le raccomandazioni
e le bisbigliano coperti dalle campane.
nella pianura con la nebbia
si vede qua e là un lago
oh lucci di nostalgia
quella domenica del ’71 tra le rive in amore
e due gerani innaffiati al balcone da una pensionata mentre
“Ehi, largo” dice da un camion un autista
ai passanti intirizziti
che nei cappotti coi faldoni si muovono
e portano al prete le raccomandazioni
e le bisbigliano coperti dalle campane.
Ma
negli ultimi anni, si è diffusa una nuova koinè. Sulla solita base
ermetica, qua e là mescolata a residui avanguardistici, è nata una
poesia dalle pose ieratiche, insieme chirurgica e viscerale, orfica e
truculenta, gridata e cadaverica. Il suo tema fondamentale è il Corpo.
Certo il nostro poeta, dopo aver fiutato le filosofie francesi alla
moda, e le parole-chiave dell’odierna chiacchiera semicolta, si
butterebbe su questo tema con tetra voluttà, pronunciando la parola
“corpo” con la stessa convinzione con cui qualche decennio fa avrebbe
pronunciato la parola “popolo”. Ma a questa altezza, in genere, il poeta
ha cambiato sesso, ed è diventato poetessa: sono infatti soprattutto le
poetesse a indulgere alla retorica sulla corporeità. Questa retorica –
con tutti i topoi del sadomasochismo che si porta dietro, con tutte le
immaginabili vie crucis sessuali – può presentarsi in una forma fredda,
da “autopsia linguistica”, o in una forma infiammata e misticheggiante:
ma spesso le due forme si mescolano in una tonalità che vuol essere
rituale, liturgica.
La poesia del Corpo
rappresenta sotto una luce macabra i dettagli fisici e domestici;
mescola volontaristicamente la “carne” ai filosofemi; evoca le tragedie
storiche, o i drammi di cronaca vera, solo per la loro capacità di
fornire immagini morbose, “estreme”, sacre e dissacranti. L’intento è
quello di emulare Amelia Rosselli, ma il risultato è un kitsch
che si esprime a volte in testi debordanti, e a volte invece in testi
minimali, che fanno pensare a un Ungaretti riscritto da una casalinga
dark. A nutrire questa koinè hanno contribuito le poesie rarefatte di
Elisa Biagini e le poesie teatralizzate di Mariangela Gualtieri, i
trattatelli urlati di Giovanna Frene e il poetese fluente di Maria
Grazia Calandrone. Imitandole, il nostro camaleontico poeta (o poetessa)
potrebbe riadattare così il suo tema d’inizio:
Ave-Maria
o Ave
Maddalena?
Immacolata o macchiata
lampo nella
carne
(nella clavicola)
che ho
scorticato come
l’animula legata come
capro immolato al
bios-potere o Eichmann
fratello o Eich-Mann affondato
sul campo
spinato sul fiore
geranio di
sangue-campana –
Campana chimera ti
chiamo
sulle tue grandi
labbra di buona
novella
o Ave
Maddalena?
Immacolata o macchiata
lampo nella
carne
(nella clavicola)
che ho
scorticato come
l’animula legata come
capro immolato al
bios-potere o Eichmann
fratello o Eich-Mann affondato
sul campo
spinato sul fiore
geranio di
sangue-campana –
Campana chimera ti
chiamo
sulle tue grandi
labbra di buona
novella
Infine, ci sono i poeti che bamboleggiano.
Che fanno i fanciullini, ma senza la sapienza metrica di Pascoli. Che
amano tanto il cielo, i prati, i fiori, le “stradine” dei paesaggi
patrii. Che tifano per i sentimenti elementari, e spesso per
l’elementare sintassi e l’elementare aggettivazione. Sul confine di
questa categoria troviamo il bucolico Umberto Piersanti, che però ha
ancora la sostenutezza retorica di chi “porge” il distillato di un lungo
lavoro: sostenutezza un po’ comica, sia perché è troppo simile al
poetese in cui scrivono quasi tutti gli italiani che scombiccheranno
versi, sia perché sembra annunciare una densità sapienziale che in
realtà si riduce a qualche pensierino sulla fragilità della vita,
inserito in un desueto acquerellismo paesaggistico. Ma il massimo
rappresentante dei bamboleggianti è Claudio Damiani, che certi critici
non esitano a paragonare, oltre che a Pascoli, a Orazio. Se il nostro
poeta si convincesse che il carro vincente è quello di Damiani,
riscriverebbe i suoi versi così bamboleggiando:
Come sono belle le campane
che fanno din don vicino ai biancospini
dietro alla stradina piccola piccola
dove andiamo tenendoci le mani.
Hai visto come sboccia il geranio
bello rosso come la tua boccuccia?
Come fa bene al nostro cuore
l’Ave Maria, che a te fa chiedere:
“Cosa vuol dire Ave? E c’è Dio papà?”.
E io ti lascio la mano e ti do
un buffetto sulle labbra
e dico vuol dire “ciao”,
fai “ciao ciao” con la mano
sì saluta Dio in questo cielo azzurro
tu che puoi ancora.
che fanno din don vicino ai biancospini
dietro alla stradina piccola piccola
dove andiamo tenendoci le mani.
Hai visto come sboccia il geranio
bello rosso come la tua boccuccia?
Come fa bene al nostro cuore
l’Ave Maria, che a te fa chiedere:
“Cosa vuol dire Ave? E c’è Dio papà?”.
E io ti lascio la mano e ti do
un buffetto sulle labbra
e dico vuol dire “ciao”,
fai “ciao ciao” con la mano
sì saluta Dio in questo cielo azzurro
tu che puoi ancora.
La
pseudolirica dei poeti tardo-lombardi, dei poeti (o poetesse)
mistico-viscerali e dei poeti bamboleggianti, una pseudolirica ad alta
stilizzazione ma a bassa coerenza tecnica e formale, ottiene il
risultato opposto a quello che ogni poesia dovrebbe proporsi: anziché
potenziare il senso della lingua, lo impoverisce coi suoi stereotipi;
anziché fare attrito con gli altri codici linguistici e con la realtà
circostante, si isola in un limbo di futile arbitrio. Per fortuna, però,
accanto a questi pseudolirici ci sono ancora poeti veri. Ed è venuto il
momento di fare qualche nome, o finiremo per contribuire anche noi a
una completa svalutazione del genere. Pensiamo ad autori che rifiutano
l’alibi della stilizzazione e che costruiscono testi densi,
stratificati, di grande coerenza formale; ad autori che non si
nascondono dietro un finto esoterismo, e inseguono anzi la limpidezza,
ma una limpidezza complessa, mai bamboleggiante. Anziché tentare di
imporre un’Idea di poesia o un Personaggio, questi autori si affidano
solo al valore artigianale dei loro manufatti. Non a caso, i loro
modelli li cercano spesso in poeti maturati prima della deriva
dell’ultimo mezzo secolo; in poeti, cioè, in cui era ancora ben viva la
concezione della lirica come abile artigianato. C’è chi, come Paolo
Febbraro e Anna Maria Carpi, deve qualcosa a Caproni; e c’è chi, come
Paolo Maccari, ricorda Raboni e Fortini. Patrizia Cavalli ha ben
assimilato Penna, e la giovane Mariagiorgia Ulbar riprende insieme Penna
e la stessa Cavalli. Umberto Fiori ha imparato qualcosa da Sbarbaro, ed
Elio Pecora da Cardarelli e Saba. Dei tempi del “pubblico della
poesia”, della creatività sregolata impostasi a partire dagli anni
Settanta, è rimasto insomma assai poco. Fare poesia col neoromanticismo
anarchico fotografato da Berardinelli e Cordelli, senza finire nel
bovarismo, era molto difficile. Forse per riuscirci bisognava essere
davvero, e non per moda, dei “romantici” devoti a un’idea insieme orfica
e confessionale di poesia. E anziché costruirsi una meschina carriera,
come hanno fatto molti sessantenni e settantenni di oggi, bisognava
accettare il fatto che un’idea così assoluta di poesia si concretizza
solo a sprazzi: bisognava, insomma, avere l’onestà di dichiarare spesso
fallimento. E’ questa onestà che ha salvato Giorgio Manacorda, feroce
stroncatore dei suoi colleghi e di un’intera “generazione perduta”, ma
anche severo punitore di se stesso, pronto a buttare raccolte costate
anni di fatica per tenere appena un verso. Se in un’epoca di naiveté e di pavidità intellettuale imperante è rimasta viva la figura del poeta-critico, lo si deve soprattutto a lui.
Articolo uscito sul Foglio il 16 marzo 2013
Commenti
Posta un commento