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Il maledetto giorno della tua nascita, Lautrémont!



Frammento tratto da " Les Chants De Maldoror " Comte De Lautrémont- voce: Sergio Carlacchiani




Vi consiglio di leggere questo interessantissimo approfondimento 
di Stefano Lanuzza

HUMOUR NERO DI UN DANDY ADOLESCENTE
Se io esisto, non sono un altro. Non ammetto, in me, nessuna equivoca pluralità.
(Lautréamont)
La lettura di Maldoror è una vertigine.
(M.Blanchot)

Generalmente censito come ‘poeta maledetto’, Lautréamont è tuttavia ignorato dal suo coevo P.Verlaine cui si deve la celebre antologia Les Poètes maudits, includente Corbière, Rimbaud, Mallarmé nell’edizione del 1884; con l’aggiunta, nella stampa del 1888, di Desbordes-Valmore, Villiers de l’Isle-Adam e dello stesso autore dell’opera, anagrammato nello pseudonimo di ‘Pauvre Lelian’.
Posto ciò e senza contraddire l’evocato maledettismo di Lautréamont, nome di penna di Isidore Ducasse (1846-1870), diversamente dall’invalsa vulgata si potrebbe considerare questo poeta non un emulo dell’Apocalisse giovannea, della Commedia dantesca o di Shakespeare, Goethe, Sade, Byron, bensì come l’adolescenziale seppure smagato interprete d’un humour che, similmente a certi grandi e talora insospettati ‘umoristi tragici’ (per esempio, i sempre nostri ‘contemporanei’ Dostoevskij e Kafka), volge la propria poetica verso una sorta di ascesi ironica e demistificante sino al nichilismo. L’equivalente ascesi diffusa in Francia, nella seconda metà del secolo XIX attraversato da gravi crisi politico-sociali (tra il Secondo impero, 1852-1870; la Comune, 1871; la fondazione, 1875, della Terza repubblica e l’affaire Dreyfus del 1898), da scrittori ansiosi di rinnovamento e sensibili alla voga europea dell’estetismo dandistico quali Nerval, Vigny, Gautier, Cros, Barbey d’Aurevilly, Huysmans, Moréas. Con Poe, dandy statunitense a Parigi, Borel detto Pétrus e ribattezzatosi “Licantropo”, il poeta-criminale Lacenaire finito sul patibolo, e Baudelaire, massimo poeta francese del secolo.
Allora, è riferendosi a simile contesto che ci si chiede se Les Chants de Maldoror (1868, 1869), prosastico poema in sei parti e umorosi accenti di ‘mal d’aurora’, ‘aurora del male’ e ‘mal d’orrore’ (traslati del ‘male di vivere’), non sia quel repertorio di funeste bizzarrie e ingegnose nefandezze, di nevrosi, sadismo e masochismo che apparirebbe; ma invece risulti, con le sue sconvolgenti metamorfosi e visionarità anamorfiche, tornite, più volte in frasi di lungo respiro, da una scrittura ‘visiva’ produttrice di oggetti carichi di simboli, un’epopea, improntata a dandistico humour, del male esorcizzato da un’esperienza esistenziale che ha nella parodia un’attendibile chiave di lettura. “Mi capiterà spesso di enunciare solennemente le più buffonesche proposizioni” avverte l’autore.
Sacrilega, corrosiva, epopeica parodia rappresentata con calcolate modalità mimetiche in un ordigno supremamente letterario che per certi suoi sontuosi ispanismi rivela il bilinguismo dell’autore (vissuto in Uruguay la metà della sua breve esistenza) ed è reso, fuori delle classificazioni e dei luoghi comuni fissati dalle storiografie letterarie, per ‘accumulazione’ anche incongrua di temi, suggestioni e motivi ossessivi governati da un’inesorabile crudeltà mentale, requisito primario dell’umorismo. Intricata e non riassumibile epopea, lampeggiante di luce notturna in contrasto con le Poésies (1870), corpus aforistico pervaso d’una critica solarità e, a compendiare le due facce d’una stessa moneta, elaborato dall’autore, quale prefazione a un ‘libro futuro’, pressoché nello stesso periodo della stesura di Maldoror.
Ferocemente lucido e marcato di ‘nero’ è lo humour del dandy ducassiano dalla “fronte di raso”: volgente in serie di singolari controsensi ogni retorica sia illuministica sia romantica, e apparendo quasi minaccioso per la carica di rabbia, per l’inaudito spirito di rivolta luciferina e l’oscura, prorompente energia psichica che riesce a trasfondere.
Se il dandy crede nella possibilità che ci sia un Dio, è solo per esprimergli il proprio risentimento, attuando con lui un’incessante pantomima mimetica: “una specie di civetteria” - scrive A. Camus in L’homme révolté (1951).
Quello di Lautréamont versus Maldoror è, pertanto, l’algido humour di un dandy deluso della divina Creazione, e che, ammantato di spavento, prende a testimoniare il rimosso indotto sia dalle leggi divine, sia dalle interdizioni sociali. Il poeta non si lega a niente (nemmeno alla propria realistica autobiografia) e, alla buona quanto falsa coscienza etico-borghese, oppone sarcasmi e mascheramenti, oltraggi e dissacrazioni: ciò, aggregando bene e male e propagando canzonatorie angosce al fine d’inquinare gli stagni del quietismo conformista... Quando il romanticismo, sconfessato da una parte, ritorna con rinnovate oltranze nel sentimento umoristico.
Finalmente un sentimento sui generis che, in nome d’una vampiresca, adolescenziale illusione d’onnipotenza dove l’adolescenza è soprattutto un energetico seppure torbido stato psicologico, infrange la ragione normativa e - scrive A. Breton - giunge nell’autore “alla sua suprema potenza sottomettendoci fisicamente, nel modo più totale, alla sua legge”(Anthologie de l’humour noir, 1939, 1947, 1966).
Per il resto è possibile che fin dal 1924, quando propone il Manifesto surrealista, Breton consideri il surrealismo già presagito e forse trasvalutato da Lautréamont; il quale, simulando stati psichici anomali mimati dal delirio verbale, sembrerebbe, allorché capita che lo humour allenti il proprio mordente critico, adottare il modulo schizofrenico della ‘scrittura automatica’ assurta nei surrealisti a tecnica letteraria. Resta il fatto che diverse radici del surrealismo quale avventura psichica risolta in hasard objectif (‘casualità obiettiva’) e sperimentazione linguistica affondino nel profondo dei Chants, caratterizzati dai continui scambi tra piani umoristici e surrealistici.
Tanto più assidue sono le strategie umoristiche, convogliate nel senso del tragico tradotto dal deluso amore universale del poeta, disperso in una Parigi ridotta a vischiosa sentina di solitudini, quanto più costante è il contrasto tra la barocca sublimità della sua iperletteraria orchestrazione e molti referenti ora infimi, ora abnormi e farseschi, ora drammatici. Comunque - chiosa lo stesso Lautréamont -, “ciò che la propensione del nostro spirito alla farsa crede una mediocre forma umoristica, spesso, nel pensiero dell’autore è una verità importante…”.
Epifanie-guida inauguranti un imponderabile bestiario moralizzato e subito metamorfosante nelle svariate immanenze provocatorie che discoprono il grottesco dell’esistente introducendo, col dramma e la tragedia, la critica degli assetti sociali, sono, esordendo nei Chants, lo stormo di gru comandato dalla vecchia gru-filosofa, l’acaro sarcopto propagatore della scabbia e il vampiro autobiografico identificato con l’adolescente Isidore, memore degli adombrati compagni di liceo Falmer, Reginaldo, Edoardo, Elsseneur, Mervyn…; che in Maldoror, lungo sogno neobarocco ed espressionistico nella patria dell’illuminismo, interagiscono coi personaggi, taluni deformi e paradossali ‘figure dello schermo’, di Lemano, Lombano, Lohengrin, Mario, Tremdall, Holzer, Aghone.
Similitudini d’una vivente metamorfosi, ingegnose dislocazioni e stupefacenti proliferazioni dell’Io immane del poeta, ora seguono e s’affollano in allegorica ridda ed eterogeneo, dilagante pullulìo, col polpo e la piovra, il grillo, i cani impazziti, la foca e l’elefante, il pesce martello, la razza, la tarantola e il ragno, l’avvoltoio, il pellicano, il capodoglio e l’ippopotamo, la rana, il coccodrillo, il gabbiano e l’airone, la lumaca, il millepiedi e la chiocciola, la torpedine, l’anarnak groelandese e lo scorfano-orribile, il nibbio, il bozzagro e, giunto dall’inferno e covato dall’uomo, il diabolico pidocchio alleato della sporcizia... Poi, in allucinati turbini, l’istrice, il picchio, la civetta, l’asino, il rospo, la piattola e la vipera, alleati, insieme all’uomo, nel coprire d’insulti il Creatore, sorpreso a giacere in mezzo alla strada, ubriaco fradicio e coi vestiti a brandelli. Un Dio fallito, valetudinario e insulso, che disprezza se stesso e l’uomo sua immagine e somiglianza, è quello messo in scena: quasi un fenomeno da baraccone, irriso e disprezzato dal poeta blasfemo e terrorista.
Carnefice e, insieme, vittima della divinità, arcangelo degenerato ma ricco d’una furibonda sapienza parodistica, nobile reietto e orfano circuito dai precettori dei collegi, incompreso e trascurato dagli insegnanti, vediamo Maldoror, “divino adolescente” e “misterioso giovane” - metamorfico “predatore di rottami celesti”, “fratello della sanguisuga”, “corsaro dai capelli d’oro”, “uomo dalle labbra di bronzo […], di diaspro” […], di zaffiro” - errare tra la place Vendôme e Montmartre, rue Colbert e rue Vivienne, rue Rivoli, rue de la Verrerie e rue Lafayette, le Tuileries, i lungosenna Conti, Malaquais e dei Grands-Augustins, i ponti di Austerlitz, del Carrousel e dell’Alma, i viali Sébastopol, Poissonnière e Bonne-Nouvelle, i giardini del Palais Royal, il Panthéon, il sobborgo Saint-Denis e i dedali d’una Parigi pietrificata in irreali, inquietanti panorami: dentro un globo di enigmi dove tutto è vero e niente è davvero ciò che appare.
Eccolo, Ducasse-Maldoror, il “Montevideano” di cui udiamo i “profondi gemiti”, il bambino abbandonato che “fu buono”, il bardo senza patria che digrigna parole con la bocca piena di venefiche “foglie di belladonna” e non scrive per cercare il plauso altrui, affida ai sogni ‘guidati’ la propria stessa scrittura e ha sete d’infinito… “La fine dell’Ottocento vedrà il suo poeta” attesta non senza ragione. Aggiungendo, a mo’ d’umoristico e dissimulato viatico: “Se vuoi seguire le mie istruzioni, la mia poesia t’accoglierà a braccia aperte, così come un pidocchio recide coi suoi baci la radice d’un capello”...
Eccolo, colui che ha un “viso di platino” e non vuole emozionarsi né sa piangere, chiamare sorella la sanguisuga, compiangere la solitudine dell’ermafrodito, deplorare ma poi compatire gli “incomprensibii pederasti” e ‘trasporsi’ quale omosessuale sadico, pedofilo e corruttore… Eppure, supponendo che l’identità dell’autore riposi, come per altri moderni classici, su una retorica e autoreferenziale invenzione/nozione di scrittura, “quanto Lautréamont ci fa leggere” - ipotizza M. Pleynet - non parrebbe verificabile nella realtà effettuale; “e insomma non ha niente a che fare con la sua biografia […]. Attraverso il tracciato della sua opera, Lautréamont è stato la sua scrittura e basta” (Lautréamont par lui-même, 1967).
Espressione d’un sovrasenso allucinatorio, lo humour lautréamontiano - aggiunge e puntualizza Blanchot - “rappresenta la lucidità di uno scrittore capace di prendere le sue distanze nei confronti di ciò che scrive” (Lautréamont et Sade, 1949).
Erigendo sempre nuove, spiazzanti estetiche, col bello convenzionale fatto brutto e il brutto rovesciato in bello, Maldoror lotta col soave angelo che vorrebbe redimerlo; venera, lui cultore dell’irrazionale antiumanistico, l’esattezza delle “severe matematiche”; riconosce la propria anima gemella nella femmina di squalo con cui s’accoppia in un mucido amplesso; sogna di trasformarsi in grufolante maiale; deride i riti semilustrali delle famigliole borghesi; fa della crudeltà la maschera d’una dubbia compassione verso le creature sofferenti e abbandonate alla loro sorte da un demiurgo scandaloso, un “bandito” pure inetto, ostile all’umano e perciò dissacrato e secolarizzato…
Ecco quell’avventuriero luciferino descriversi amico della morte come un Satana miltoniano e fatalmente infermo al pari d’un eroe sconfitto e ferito, carico di morbi disgustosi e col corpo putrescente invaso da animali ripugnanti: i pidocchi gli succhiano il grasso delle costole, un granchio gli custodisce l’ano e glielo smangia con le chele, due meduse gli poppano i glutei, una perfida vipera gli divora il pene e ne prende il posto (“Eunuco mi ha reso, quell’infame!”)..
Inorridito e coperto di sangue, Maldoror sogna la propria thanatografia: sognato a sua volta da Lautréamont, che lo nomina e raffigura in visioni oniriche o ‘sogni che scrivono’ delle realtà effigiate in imperterriti simulacri ed esposte con oblique affettazioni umoristiche.
Nell’aperto, eccitato spazio della poesia ducassiana, dove - ammonisce, celiando, l’autore - non c’è posto per il sorriso “stupidamente sarcastico dell’uomo dalla faccia di papera” e, piuttosto, ha “molto spazio [il] simpatico uso della metafora”, si scorgono una lucciola parlante, l’aquila-Maldoror in tenzone col drago della Speranza, un incontro di frigidi sensi fra una macchina da cucire e un ombrello sopra un tavolo anatomico, un omnibus-fantasma che sfreccia per le strade deserte, una bambina adescatrice di passanti, un antropofago che si dice Creatore Onnipotente…
E ancora, in sequenze idealmente incrociate: una pazza che passa ballando per le strade, inseguita dai ragazzi (“la prendono a sassate, come fosse un merlo”: è la madre della bambina, somigliante a una rosa e stuprata da Maldoror insieme al suo mastino).
Grida di dolore, che diventano rettili.
Vomitano, i porci, guardando Maldoror che cambia e degrada restando sempre se stesso.
Si materializza l’odio, assumendo l’aspetto “spezzato” d’un bastone calato nell’acqua.
Maldoror-polipo attacca le ventose dei suoi tentacoli all’augusto corpo d’Iddio.
Una frotta di galline e un gallo tempestano di beccate la vagina tumefatta d’una prostituta abitatrice d’un convento divenuto fetido bordello, dove un ragazzo viene scorticato vivo e va trascinando sul pavimento la propria stessa pelle rivoltata, simile a un mantello intriso di sangue.
Caduto dalla testa del Creatore, un capello biondo, lungo e petulante quanto un uomo, saltella nella stanza del convento-bordello e parla, parla.
Delle monache sepolte nelle catacombe del convento-bordello si destano dopo secoli dal loro letargo mortale, escono scarmigliate dai loculi e, non potendo ritrovare il sonno, intonano ipnotiche preghiere.
Un asino mangia un fico, e c’è Maldoror che sostiene d’avere visto un fico mangiare un asino; ma non per questo si mette a ridere: gli sembrerebbe di somigliare alla stupida capra. Piange, invece: al pari del cinghiale che lo sfiora correndo e lascia cadere una lacrima.
Appeso per i capelli a una forca, un uomo con le braccia legate dietro la schiena viene seviziato da due donne-orango: sua madre e sua moglie.
Di fronte a tutto ciò, “ridete, ma nello stesso tempo piangete” raccomanda l’umorismo nero e pressappoco giocondo del dandy adolescente. Che aggiunge: “Sia maledetto dai suoi figli e dalla mia scarna mano, chi insiste a non capire i crudeli canguri del riso e gli audaci pidocchi della caricatura!”.
Inventario moltiplicato di ossessioni, paradossi e simboli capziosi, i Chants maldororiani: parossismi onirici e abissi regolati da una parola che, per farsi schietta letteratura e autentica poesia, non si pone limiti né censure; fino a scardinare gli invalsi modelli estetici. Al punto che, a discoprire una singolare ‘estetica del brutto’, per Lautréamont il volto d’un amico è bello come “il fiore del cactus” e il ‘viso’ d’un rospo antropomorfico è triste come l’universo e bello come il suicidio. Il gufo reale della Virginia appare bello come la curva descritta da un cane in corsa e i rapaci sono belli come “scheletri che sfoglino pannocchie dell’Arkansas”. L’uomo con la testa di pellicano - probante antefatto e conio d’un metafisico quadro di Savinio - è bello come “i due lunghi filamenti tentacolari di un insetto”, il pio ma non innocente Mervyn, sedicenne insidiato dal vieppiù tenebroso Maldoror, è bello come gli artigli retrattili dei rapaci; e lo scarabeo, che si balocca con una palla di sterco come fa il Demiurgo col mondo, è bello come il tremito delle mani causato dall’alcolismo...
Posseduto dal demone periglioso della similitudine, da un culto del paragone profuso in gran parte dei Canti, l’autore, da P. Eluard definito “maestro di metafore” (Donner à voir, “Nouvelle Revue Françoise”, 1939), si compiace, in una sequela di sarcasmi, di decontestualizzare, mistificare, allucinare o addirittura ‘sconclusionare’ la logica; e lo fa non ricorrendo all’automatismo inconscio praticato dai surrealisti, ma all’insegna d’una iper-retorica che non può essere se non parodistica.
Piene sono, qui, la jouissance dandistica e la consapevolezza del giovane poeta di talento che ricerca e sperimenta, mediante correlazioni dinamiche dilatate in inimmaginabili apparizioni, accostamenti inusuali e inedite prospettive, uno stile rivoltoso, avverso e oppositivo: perché è proprio del dandy stare all’opposizione; e costui - scrive Camus - “non può porsi se non opponendosi” (cit).
Alle nequizie di un Dio dipinto “in tutta la splendente aureola del suo orrore”, Maldoror obietta con la bestemmia, con la superbia gnostica di chi vuole giudicare il proprio divino giudice (gli improperi maldororiani contro il Creatore annunciano gli insulti che i surrealisti rivolgono al Papa).
Dio esiste? Allora, questa suprema e mutevole essenza, “pitone […], drago […], rinoceronte”, è a maggior ragione colpevole del male degli uomini… È per non dimenticarsene che l’inconsolabile bestemmiatore non cessa la sua lesa santità: maledice sapendo che non c’è salvezza possibile, e perché l’Onnipotente è lui stesso dannato.
Per tali sue implicazioni, che sembrerebbero d’un aspirante ‘teologo ateo’ e sono piuttosto emblematizzate nelle confluenze del racconto poetico, è ben più d’un protosurrealista l’irripetibilità della meteora-Lautréamont: la cui scrittura contraddice, con la sua puntualità lessicale e il suo humour dolente, l’antiletteraria immediatezza psichica professata dai surrealisti.
Riferendosi a Lautréamont, A. Gide scrive: “La sua influenza lungo il XIX secolo è stata nulla, ma egli è con Rimbaud, forse più di Rimbaud, il padrone delle sorgenti per la letteratura di domani” (“Le Disque Vert”, Le cas Lautréamont, Paris-Bruxelles, 1925). A sua volta, G. Debord, autore del primo, eversivo e attualissimo trattato di critica del sistema dello spettacolo (La société du spectacle, 1967) e tra i fondatori dell’Internazionale situazionista (1957), nel suo autobiografico Panégyrique (1989) proclama di stimare, “più di chiunque al mondo […,] Arthur Cravan”, sconosciuto ‘poeta-pugile’, fondatore della rivista “Maintenant” venduta per le strade di Parigi con un carrettino da fruttivendolo, “e Lautréamont”…
Chissà allora che i più legittimi eredi dei Chants - profezia dell’orrore postmoderno e poema di rivolta in cui convergono poesia, romanzo, critica del mondo - e di Lautréamont, poeta ricco di destino, alfine riconoscibile come agitatore letterario d’avanguardia, non siano gli storicizzati surrealisti bensì le generazioni libertarie di là da venire, eredi dei sediziosi déragés e dei ‘situazionisti’ anticipatori del sessantottesco Maggio francese.
Una conclusione ‘aperta’ o una franca promessa è infine la seguente frase all’inizio dell’ultimo canto maldororiano: “Insomma, pretendereste che avendo, nelle mie chiare iperboli, insultato un po’ per gioco l’uomo, il Creatore e me stesso, la mia missione fosse compiuta? No: la parte più importante del mio lavoro è ancora tutta da fare”.
(Stefano Lanuzza)

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