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In ricordo di Ignazio Silone interprete: Sergio Carlacchiani



                      IL "CASO SILONE"

Gli storici Mauro Canali e Dario Biocca, di recente, alla luce di una documentazione ritrovata negli archivi fascisti, hanno sostenuto la tesi di un'attività spionistica di Silone a favore della polizia politica fascista e ai danni del Partito comunista, di cui Silone era un autorevole dirigente. L'immagine che prende forma è quella di un Ignazio Silone dalla doppia personalità: una di militante e dirigente comunista di spicco, l'altra di utilissimo collaboratore della polizia fascista. Tale ambiguità, mantenuta per tutto il corso degli  anni '20, avrebbe finito con il travolgere psicologicamente lo scrittore verso l'inizio degli anni '30, provocando una profonda depressione ed una crisi di coscienza che l'avrebbe convinto a lasciare sia il partito sia la sua attività di spionaggio, per dedicarsi completamente alla letteratura. La versione della "doppiezza" di Silone è stata oggetto di un acceso dibattito storiografico e mediatico, contestata soprattutto dallo storico Giuseppe Tamburrano che ha sostenuto l'innocenza di Silone.
Il 7 marzo 1996, su "Il Corriere della Sera", nella pagina dedicata a "Cultura e Spettacoli", Giovanni Belardinelli dà la notizia di due clamorosi documenti rinvenuti dall'allora ricercatore presso l'Università di Perugia, Dario Biocca. I documenti che, due giorni più tardi, furono presentati dallo stesso Biocca nel corso della conferenza "The other among us", organizzata dalla Stanford University a Firenze, erano stati rinvenuti dal ricercatore presso l'Archivio Centrale dello Stato di Roma e dovevano dimostrare che Ignazio Silone, al secolo Secondino Tranquilli, era stato, dal 1919 al 1930, comunista ed informatore della polizia politica fascista.

3.1       La tesi di Dario Biocca e Mauro Canali

Gli "accusatori" di Silone, nel 2000, hanno pubblicato un libro dal titolo "L'informatore: Silone, i comunisti e la polizia". In questo testo vengono raccolti i documenti rinvenuti nell'Archivio di Stato e i risultati delle ricerche condotte dai due autori.
Secondo Biocca e Canali, la documentazione che attesterebbe il collaborazionismo di Silone con i fascisti sarebbe addirittura "inoppugnabile". Le lettere sono state inviate da un certo Silvestri al commissario di polizia fascista Guido Bellone. Al loro interno verrebbero svelati numerosi dettagli relativi ai movimenti dei dirigenti comunisti, i collegamenti con il partito russo, i passaggi di uomini e capitali e altre informazioni dettagliate sul Partito Comunista d'Italia. Silvestri, secondo Biocca-Canali, non è altri che Silone. I due studiosi cercano di evidenziare i caratteri di uniformità stilistica delle relazioni fiduciarie e soprattutto tengono a far notare come ci sia una perfetta coincidenza di tempi e luoghi tra l'invio delle missive e gli spostamenti di Ignazio Silone. Sembrerebbe, inoltre, che il rapporto tra Silone e Bellone possa essere fatto risalire addirittura al 1919, quindi prima ancora della nascita del Partito Comunista d'Italia, dell'avvento del fascismo e della fondazione dell'OVRA.
Biocca e Canali ritengono assolutamente autentici i documenti rinvenuti e credono che molti degli arresti effettuati in Italia tra il 1927 e il 1928 tra i dirigenti comunisti possano essere stati originati dalle informazioni fornite da Silone ai fascisti.
La corrispondenza con Bellone si interrompe nel 1930. Ad attestarlo una lettera del 13 aprile, autentica, di Ignazio Silone.
Gli studiosi affermano anche che, con l'abbandono della politica militante, la scrittura divenne per Silone lo strumento per cercare di ricomporre la propria esistenza: esistenza che ora le carte scoperte nell'Archivio Centrale dello Stato credono di collocare nella giusta luce.
Secondo gli studiosi "accusatori", non c'è dubbio che Silvestri, alias Ignazio Silone abbia svolto l'attività di informatore con sofferto e tormentato disagio. Le note fiduciarie attestano come egli avesse tentato di porre fine al suo rapporto con la polizia già nel 1924: anno in cui fu colpito da una profonda crisi "che, riemersa alcuni anni dopo in forma assai più acuta, lo condusse fino all'orlo della morte e poi alla riscoperta della fede". Nel 1930, infatti, Silone viene espulso dal comitato centrale comunista. Finalmente chiede all'ispettore Bellone di interrompere la corrispondenza, in quanto intende iniziare una nuova vita: eliminandovi "tutto ciò che è falsità, doppiezza, equivoco, mistero", e riparando il male commesso. La drammatica testimonianza è nella lettera del 13 aprile 1930.
Silone, dunque, avrebbe abbandonato il partito comunista "per ragioni del tutto estranee al dissenso con Togliatti e Grieco circa questioni tattiche e di schieramento". Biocca ritiene, infatti, che Silone alla fine si fosse tirato indietro per tre ordini di motivi: "1) il peso accumulato in questi anni faticosi di doppiezza ; 2) l'arresto del fratello che forse - il capitolo è ancora molto da esplorare - lo fa sentire responsabile di qualcosa ; 3) l'avvio della terapia con Jung, in Svizzera".
Altri ricercatori, soprattutto americani, prendono in considerazione l'identità psico-fisica di Silone, dandoci l'immagine di un uomo complessato e debole, che odiava il padre, che aveva gravi problemi mentali, vittima di una doppiezza patologica ereditaria e che soffriva di devianze di natura sessuale. Si pensa, infatti, che la relazione tra Silone e Bellone non sia stata solo di carattere "professionale" ma anche erotico-sessuale e che in Svizzera avesse frequentato lo studio dello psicanalista Jung per i problemi mentali ereditari che lo affligevano.

3.2       La difesa

Tra gli interventi più autorevoli in difesa di Silone va ricordato quello di Indro Montanelli. La posizione del grande giornalista ed intellettuale italiano è molto chiara: "anche se Silone stesso si alzasse dalla tomba per dirmi che queste accuse erano vere, ancora non le crederei". Montanelli invita, prima di tutto, a non credere che, a prescindere, "documento" sia sinonimo di "verità": non bisogna mai fidarsi ciecamente e totalmente dei documenti. Infatti, una delle critiche più pesanti rivolte a Biocca e a Canali riguarda proprio l'autenticità e l'affidabilità delle carte rinvenute.
In merito a questo argomento è fondamentale il lavoro minuzioso e attento condotto da Giuseppe Tamburrano, in collaborazione con Gianna Granati e Alfonso Isinelli, e con l'ausilio di un'esperta in perizie calligrafiche, Anna Petrecchia. Il loro lavoro è stato raccolto nel libro "Processo a Silone. Le disavventure di un povero cristiano" del 2001.            Tamburrano e i suoi collaboratori hanno analizzato accuratamente i documenti su cui Biocca e Canali hanno fondato la loro tesi, ed hanno elencato una serie di imprecisioni, trascuratezze ed errori compiuti dai due. Prima di tutto essi sottolineano il fatto che i fascisti erano soliti usare tutti i mezzi possibili per riuscire ad infangare i loro avversari e, per riuscire a raggiungere lo scopo, non esitavano a raccogliere calunnie e delazioni da parte di chiunque. Per cui, molti dei materiali depositati presso l'Archivio Centrale dello Stato contengono informazioni inaffidabili, incomplete e prive di riscontro reale. Nel caso specifico, le note attribuite da Biocca e Canali a Silone sono rappresentate da messaggi dattilografati o scritti con grafie diverse, prive di mittente o con mittenti vari e dai contenuti molto generici. Non c'è nessuna identificazione certa della fonte. Il nome "Silvestro" (e non Silvestri come Biocca-Canali scrivono) appare solo dal 30 aprile 1928, immediatamente dopo l'arresto di Romolo. I rapporti, in sostanza, sono rappresentati da note anonime, generiche, scritte evidentemente da persone diverse. Secondo Tamburrano e colleghi, quindi, non c'è una ragione oggettiva che permetta di attribuire inconfutabilmente quei documenti a Silone. A confermare il tutto, la perizia della grafologa Petrecchia sulla base della lettera autografa di Silone, datata 13 aprile 1930.
Tamburrano smantella anche l'argomentazione della presunta coincidenza di tempi e luoghi rispetto all'invio delle note e gli spostamenti di Silone in quanto, anche in questo caso, non esiste una prova certa: bisognerebbe conoscere con esattezza i movimenti dello scrittore e anche il tempo che una lettera impiegava per arrivare a Roma dal luogo in cui Silone si trovava.
La tesi finale di Tamburrano è, quindi, che i documenti alla polizia fascista siano un tentativo da parte di Silone di fingersi informatore per salvare il fratello, arrestato e condannato a morte.

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