Mi sono chiesto anch'io, per anni, perché la gente non legga poesia, né contemporanea né, in genere, classica. E' strano. In fondo, come diceva non ricordo più chi parafrasando lo stile pubblicitario, "la poesia ve lo dice prima, la poesia ve lo dice meglio": in un'epoca dominata dalla fretta e dalla frammentarietà come la nostra, la poesia dovrebbe avere molti lettori (pare che in Giappone gli haikai abbiano innumerevoli estimatori, ma forse è una delle solite leggende sull'estero). La risposta che infine mi sono dato è semplice. La colpa è della nefasta pratica della PARAFRASI, che andrebbe bandita e sanzionata dalla legge come maltrattamento di poesia. I bambini, in un'età in cui sono malleabili, ricettivi, influenzabili, in cui nel loro animo si imprimono sensazioni e predisposizioni che resteranno sedimentate nel loro subconscio per tutta la vita, vengono abituati alla visione, assolutamente distorta, secondo la quale ad ogni espressione di un testo poetico deve corrisponderne, esattamente, una ed una sola nel linguaggio ordinario (con risultati assurdi, degni di Google Translator). Questo uccide il piacere della poesia: che è dato proprio dalla polivalenza dei messaggi e dall'ineffabilità delle sfumature. Niente parafrasi, io dico; interpretazione sì: ma discorsiva, come se si descrivesse e si interpretasse un dipinto; spiegazione, certo, di alcuni termini, e di alcune espressioni; ma fornendo una molteplicità di spiegazioni possibili, e chiarendo che nessuna di esse è totale, unica e definitiva. E al diavolo quelle stramaledette "griglie" per l'analisi del testo, che in qualche modo corrispondono alle altrettanto squallide "griglie" per la valutazione degli studenti, buone solo per le necessità burocratiche. Le griglie usiamole per il barbecue.
Matteo Veronesi
La colpa è dei poeti. Di Sebastiano Gatto
Ecco quel che penso sulle cause della marginalizzazione e dell’odierno scadimento della poesia.
I poeti nati negli anni 50 e 60 hanno avuto grandi figure di riferimento da cui hanno imparato a fare poesia, a correggersi, a ripensarsi, ad aspettare, ad ascoltare. Hanno fatto in tempo a vivere l’epoca in cui ogni casa editrice aveva la sua collana di poesia diretta da gente con una chiara idea di poesia. Anche grazie a questo (oltre al talento), sono emerse alcune voci originali, necessarie e potenti come ad esempio quelle di Milo De Angelis o Luciano Cecchinel.
Chi ha preso il posto dei maestri, tuttavia, non ne ha saputo pienamente raccogliere il testimone. Ai poeti finiti a dirigere le collane di poesia sono mancate idee, progetti, criteri di selezione; lo dimostrano i cataloghi ormai del tutto impoveriti o addirittura la scomparsa di storiche collane. Gli editori più grandi pubblicano il già pubblicato, l’usato sicuro (sicuro per chi?), non fanno scouting, non leggono. Al contrario per chi è arrivato non c’è più selezione: chi è arrivato può pubblicare anche libri pessimi.
Troppi poeti hanno smesso da un pezzo di fare i conti con la poesia per fare solamente i propri conti (è precisamente qui che denoto la differenza dai maestri).
I poeti nati dagli anni 70 in avanti si sono quindi ritrovati con pochi maestri, avendo in cambio molte antologie e troppe pubblicazioni. Pochi i progetti con dietro un’idea (con rare eccezioni come ad esempio i Quaderni di Marcos y Marcos); poche le guide capaci di dire dei “no” meritati, ad arginare la pulsione alla pubblicazione. I risultati che vedo sono da una parte l’uscita di un numero incalcolabile di libri (e mi taccio su quanto avviene nel web), dall’altra il fatto che non ci sia un libro dei nati negli anni 70 (sui più giovani mi tengo un passo indietro) che si possa dire definitivo. La nostra generazione, per intenderci, non ha prodotto finora (e spero davvero che sia solo un “finora”) libri come Macello di Ivano Ferrari, Tema dell’addio di Milo de Angelis, Al tragol jért di Luciano Cecchinel. Certo, ci sono buoni, buonissimi libri (ciascuno si faccia la sua personale classifica), ma da nessuno sono uscito con la sensazione di aver vissuto un’esperienza mai prima provata, né ho trovato quel libro che in qualche modo ci definisca come generazione.
Ciò detto, resto convinto che la responsabilità sia soprattutto dei poeti: il problema non è la mancanza di maestri, né è questione di talento. Credo piuttosto che il problema sia la perdita di interesse del poeta per la poesia e una crescita di interesse del poeta verso se stesso.
Due poeti che parlano tra loro non si chiedono mai: “Di cosa parla il tuo libro?” o “È stato difficile confrontarti con questi tema, con questa storia?”.
Le domande sono: “Per chi hai pubblicato”, “Conosci quella rivista?”, “Chi ti ha scritto la recensione?”. Oppure si parla male degli altri poeti (lo faccio io per primo).
Siamo nella totale autoreferenzialità. Di cosa parli un poeta, quale storia racconti un poeta, ai poeti non interessa. Si badi: non intendo dire che un poeta debba scrivere una storia in versi, intendo dire che dai versi deve trasudare una storia. Poesia è solo quando dietro ai versi c’è un uomo che parla dell’uomo, è solo quando tra i versi si avvertono un’umanità, una presenza, un’esperienza, oppure un abisso, una crepa, un silenzio. Gli a-capo servono precisamente a dare accoglienza a tutto ciò.
Per contro, il poeta che non sa rispondere pienamente alla domanda “Di cosa parla il tuo libro”, è il poeta che non ha attraversato il deserto, ma ci è girato attorno.
Male, dunque, editori, distributori e stampa;
ma non riesco a togliermi dalla testa che i colpevoli dello stato in cui versa la poesia sono i poeti.
I poeti nati negli anni 50 e 60 hanno avuto grandi figure di riferimento da cui hanno imparato a fare poesia, a correggersi, a ripensarsi, ad aspettare, ad ascoltare. Hanno fatto in tempo a vivere l’epoca in cui ogni casa editrice aveva la sua collana di poesia diretta da gente con una chiara idea di poesia. Anche grazie a questo (oltre al talento), sono emerse alcune voci originali, necessarie e potenti come ad esempio quelle di Milo De Angelis o Luciano Cecchinel.
Chi ha preso il posto dei maestri, tuttavia, non ne ha saputo pienamente raccogliere il testimone. Ai poeti finiti a dirigere le collane di poesia sono mancate idee, progetti, criteri di selezione; lo dimostrano i cataloghi ormai del tutto impoveriti o addirittura la scomparsa di storiche collane. Gli editori più grandi pubblicano il già pubblicato, l’usato sicuro (sicuro per chi?), non fanno scouting, non leggono. Al contrario per chi è arrivato non c’è più selezione: chi è arrivato può pubblicare anche libri pessimi.
Troppi poeti hanno smesso da un pezzo di fare i conti con la poesia per fare solamente i propri conti (è precisamente qui che denoto la differenza dai maestri).
I poeti nati dagli anni 70 in avanti si sono quindi ritrovati con pochi maestri, avendo in cambio molte antologie e troppe pubblicazioni. Pochi i progetti con dietro un’idea (con rare eccezioni come ad esempio i Quaderni di Marcos y Marcos); poche le guide capaci di dire dei “no” meritati, ad arginare la pulsione alla pubblicazione. I risultati che vedo sono da una parte l’uscita di un numero incalcolabile di libri (e mi taccio su quanto avviene nel web), dall’altra il fatto che non ci sia un libro dei nati negli anni 70 (sui più giovani mi tengo un passo indietro) che si possa dire definitivo. La nostra generazione, per intenderci, non ha prodotto finora (e spero davvero che sia solo un “finora”) libri come Macello di Ivano Ferrari, Tema dell’addio di Milo de Angelis, Al tragol jért di Luciano Cecchinel. Certo, ci sono buoni, buonissimi libri (ciascuno si faccia la sua personale classifica), ma da nessuno sono uscito con la sensazione di aver vissuto un’esperienza mai prima provata, né ho trovato quel libro che in qualche modo ci definisca come generazione.
Ciò detto, resto convinto che la responsabilità sia soprattutto dei poeti: il problema non è la mancanza di maestri, né è questione di talento. Credo piuttosto che il problema sia la perdita di interesse del poeta per la poesia e una crescita di interesse del poeta verso se stesso.
Due poeti che parlano tra loro non si chiedono mai: “Di cosa parla il tuo libro?” o “È stato difficile confrontarti con questi tema, con questa storia?”.
Le domande sono: “Per chi hai pubblicato”, “Conosci quella rivista?”, “Chi ti ha scritto la recensione?”. Oppure si parla male degli altri poeti (lo faccio io per primo).
Siamo nella totale autoreferenzialità. Di cosa parli un poeta, quale storia racconti un poeta, ai poeti non interessa. Si badi: non intendo dire che un poeta debba scrivere una storia in versi, intendo dire che dai versi deve trasudare una storia. Poesia è solo quando dietro ai versi c’è un uomo che parla dell’uomo, è solo quando tra i versi si avvertono un’umanità, una presenza, un’esperienza, oppure un abisso, una crepa, un silenzio. Gli a-capo servono precisamente a dare accoglienza a tutto ciò.
Per contro, il poeta che non sa rispondere pienamente alla domanda “Di cosa parla il tuo libro”, è il poeta che non ha attraversato il deserto, ma ci è girato attorno.
Male, dunque, editori, distributori e stampa;
ma non riesco a togliermi dalla testa che i colpevoli dello stato in cui versa la poesia sono i poeti.
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