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Data di nascita: 10 ottobre 1921, Pieve di Soligo
Data di morte: 18 ottobre 2011, Conegliano


                       "Elegia Pasquale" di Andrea Zanzotto   Interpreta: Sergio Carlacchiani


il manifesto - quotidiano comunista

L’iperveglia di Zanzotto per ascoltare il mondo che si sfalda

Poesia. I versi intellettualizzati dell’autore veneto dispongono a una percezione integrale delle cose dall’interno di sé, dilatando a dismisura i sensi.


La poe­sia di Andrea Zan­zotto, così densa di richiami cul­tu­rali, così fit­ta­mente intel­let­tua­liz­zata, così acu­ta­mente soste­nuta dalla più lucida e avver­tita coscienza teo­rica e cri­tica (del resto fol­go­ranti sono le pagine cri­ti­che di Zan­zotto, che è stato certo, pur evi­tando ogni aura pro­fes­sio­nale, uno dei mag­giori cri­tici del secondo Nove­cento), si dispone tutta in realtà entro una per­ce­zione inte­grale del mondo, in una postura del corpo, della mente, della psi­che: essa sca­tu­ri­sce dall’essere della per­sona, della sua per­sona, entro il suo più deter­mi­nato spa­zio vitale, den­tro l’orizzonte attra­ver­sato e vis­suto, nella fisi­cità dei luo­ghi e delle occor­renze quo­ti­diane, nel respiro mol­te­plice dell’ambiente, nel flusso del tempo che porta con sé oggetti, con­sue­tu­dini, lin­guaggi, pae­saggi natu­rali e costru­zioni arti­fi­ciali. Tutto sen­tito e avver­tito attra­verso una sen­si­bi­lità per­so­nale in cui la più intensa ade­sione alla natura, al suo richiamo crea­tu­rale, si intrec­cia con le diver­sioni del pen­siero, con le inquie­tu­dini, i tur­ba­menti, le astra­zioni della mente: è il corpo stesso del sog­getto, con l’esercizio e i disturbi di tutti i sensi, a darsi come sostanza psi­chica che «sente» il mondo, che sta den­tro il pre­sente, den­tro la cul­tura, il lin­guag­gio, la quo­ti­dia­nità, avver­tendo al pro­prio interno tutto il dispie­garsi, l’ansimare, l’aggrovigliarsi, gli scatti di bel­lezza e gli scarti di degra­da­zione. Que­sto sen­tire trova den­sità e sostanza in quello che viene chia­mato incon­scio (e che ormai non sap­piamo più dav­vero cosa sia): e si affida diret­ta­mente alla poe­sia, fa della poe­sia un modo di «esi­stere psi­chi­ca­mente», dispo­ni­bi­lità infan­tile e osti­na­zione intel­let­tuale, pic­colo scarto del quo­ti­diano e ver­ti­gi­nosa ascesa al sublime, lal­la­zione casa­linga e cura per il destino del mondo.
In una rifles­sione del 1987, Ten­ta­tivi di espe­rienze poe­ti­che (poe­ti­che lampo), Zan­zotto ha pre­ci­sato che il rap­porto dell’esperienza poe­tica con «un ele­mento di sogno (…) con­ti­nua­mente si auto­su­pera in sen­ti­mento di rea­liz­za­zione di un pro­getto. L’inconscio si pro­duce con­ti­nua­mente, tra­vol­gendo con­sa­pe­vo­lezza e “veglia”, ma atti­vando insieme una spe­cie di iper­ve­glia spo­stata in avanti». In que­sta iper­ve­glia Zan­zotto ascolta e scruta il mondo con tutta la ten­sione del suo corpo/psiche, con l’insondabile allarme dei sensi e con la stre­nua vigi­lanza dell’intelletto: ascolta e scruta in una ampli­fi­ca­zione e dila­ta­zione dell’udito e della vista che si affida al lin­guag­gio e gli fa scon­tare tutte le defor­ma­zioni e insieme le acqui­si­zioni di quell’iper, di quel troppo che può dar luogo a mol­te­plici disturbi della comu­ni­ca­zione, ma che con­duce a rive­lare lo stato del mondo. In ter­mini più sem­plici, la poe­sia di Zan­zotto ha la capa­cità di sen­tire il tempo, di sca­vare nella Sto­ria e nella con­di­zione del pre­sente, pro­prio per­ché ha diretta radice in quello stato di iper­ve­glia, di atten­zione asson­nata, che trova sostanza nella pro­pria radice psi­co­fi­sica (nel suo essere «den­tro» la realtà) e insieme viene esal­tata e defor­mata da un assi­duo impe­gno intel­let­tuale (che tocca quella realtà da «die­tro», come lateralmente).
Ne «La Pasqua a Pieve di Soligo» (nella rac­colta Pasque, 1973), la ricerca di comu­ni­ca­zione viene affi­data a una veglia di ipe­ra­scolto, «veglio in ipe­ra­cu­sia», ascolto dila­tato e poten­ziato (che insieme pro­duce defor­ma­zione e cono­scenza, una cono­scenza che non può pre­scin­dere dalla defor­ma­zione): e que­sta ipe­ra­cu­sia con­duce all’ascolto di osses­sivi e distrut­tivi rumori, di ogni sorta di motori e della vio­lenza dei loro scon­tri. In tutti i modi Zan­zotto ascolta, in una dila­ta­zione sen­so­riale, che non riguarda sol­tanto l’udito, ma chiama in causa a livelli diversi tutti i sensi; domi­nante è comun­que l’orizzonte visivo, nei mol­te­plici modi in cui la poe­sia viene a trac­ciare imma­gini, dise­gni, slar­ghi di pae­sag­gio, evi­denza e appa­renza di luo­ghi reali e imma­gi­nari, spesso reali ma pro­iet­tati in una sorta di tor­sione imma­gi­na­ria. In uno dei tanti effetti visivi dell’ultima rac­colta, Con­glo­me­rati, l’iper viene diret­ta­mente attri­buito alla visione: «E poi e poi, cadere, non risor­gere, iper­ve­dere / argu­ta­mente». Udito e visione, in que­sto loro neces­sa­rio eccesso, sono del resto per­pe­tua­mente minac­ciati da disturbi, da feno­meni defor­manti: acu­feni e fosfeni sono ter­mini emble­ma­tici per la poe­sia di Zan­zotto, tanto che il secondo ha dato addi­rit­tura il titolo per il secondo volet (1983) della sua «pseudotrilogia».
Ne «La Pasqua a Pieve di Soligo»: «di fosfeni bru­lica il qua­dro e il mio cor­po­reo schema, / in fosfeni il per­verso e la regola il sem­pre e il mai scema». Ne La Beltà (1968) il testo dal titolo «Ado­ra­zioni, richie­ste, acu­feni» mette in scena pro­prio il disturbo che il rumore della Sto­ria causa al sogno di ado­ra­zione della bel­lezza: fischi negli orec­chi che tra­mano il per­dersi e negarsi dei luo­ghi ede­nici, di ogni ritorno a un’infantile ade­sione al mondo. Poi in «Biglia» (ancora in Pasque), poe­metto in cui molto forte è la pre­senza di dati sonori, dove si avvi­tano «lente con­no­ta­zioni / in deto­na­zioni / clic sgrì­dolo e piz­zico», tra fischi, versi di uccelli, rumori, gemiti e sospiri, c’è un invito a slac­ciare «l’otre a fosfeni e acu­feni». «Biglia» è un sus­se­guirsi di auscul­ta­zioni entro una gabbietta/casupola: in un testo di Idioma si dice che esso sarebbe stato ispi­rato da un «parente ere­mita» che «fu l’ultimo tuo com­pa­gno nell’auscultazione / di certi sistemi del silen­zio / di certe micro­vo­ca­lità stel­lari». Que­sto testo di Idioma è imme­dia­ta­mente suc­ces­sivo a quello dal titolo emble­ma­tico «Ascol­tando dal prato», dove un suono fuori misura di pia­no­forte suscita la dispo­si­zione all’ascolto della realtà, alla tra­scri­zione di un «pos­si­bile uni­ver­sale spartito».
La realtà si ascolta attra­verso il lin­guag­gio, che porta insi­sten­te­mente nella poe­sia – facendo un uso spesso iro­nico e defor­mante della vec­chia risorsa dell’onomatopea – gli scarti e i fram­menti del rumore con­tem­po­ra­neo, nella sua dirom­pente e mici­diale varietà. Pro­prio negli spazi dell’iper­ve­glia che è stata la vita di Zan­zotto, ascol­tando il mondo dalla sua «pieve sac­cheg­giata» (come ebbe a dire Vin­cenzo Con­solo), la sua poe­sia ha dato voce allo sfal­darsi e al lace­rarsi del mondo, alle derive dell’ambiente fisico, men­tale, lin­gui­stico. Poeta dei luo­ghi e dell’impossibile sal­vezza di un mondo insi­diato dal pro­fitto, dall’aggressività, dall’irresponsabilità, dall’indifferenza, dai miti media­tici che si suc­ce­dono in incon­trol­la­bile ed effi­mera velo­cità: e tanto più negli ultimi anni egli ha sen­tito tutto il peso di que­ste lace­ra­zioni, anche con scatti che a poste­riori pos­sono appa­rire pro­fe­tici, come i versi in dia­letto affi­dati al suo Nino in un testo di Sovrim­pres­sioni (2001) che invano mette in guar­dia da una scri­te­riata mol­ti­pli­ca­zione delle viti. Si pensa subito alla recente scia­gura di Refron­tolo, pro­prio nei luo­ghi zan­zot­tiani: «State acorti, no stè pi sgion­far al balón / co tuti sti feri, ’ste rede, ’ste vì cussì fisse romai, / se no col primo sión / de piova de ’sti tenp / chemi par for­tuna no vedarò mai / a bas vien-dó tut aa rodo­lón! / Sul me lógo non posse lagnarme, / ma a tuti quanti ve zhi­ghe ‘Stè acorti!’ // Ma fursi mi qua parle, da mort, a morti» (State accorti, non met­te­tevi a stra­fare – gon­fiare il pal­lone – / con tutti que­sti pali metal­lici, que­ste reti, que­ste viti così fitte ormai, / altri­menti col primo gran tem­po­rale / di que­sti tempi / che per for­tuna non vedrò mai / in fondo vien giù tutto, a roto­loni! / Sul mio potere non posso lamen­tarmi / ma a tutti vi grido ‘State accorti’. // Ma forse io qui parlo, da morto, a morti).


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