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Uno scritto di Parise che ogni tanto rileggo per mio piacere, ve lo propongo anche arricchito da qualche commento interessante... buona lettura!




Il rimedio è la povertà (di Goffredo Parise)


Pubblico qui un articolo di Goffredo Parise tratto dalla rubrica che lo scrittore tenne sul “Corriere della sera” dal 1974 al ’75 (ora nella bella antologia a cura di S. Perrella, Dobbiamo disobbedire, Adelphi 2013). L’articolo, che apparve il 30 giugno 1974, è un piccolo gioiello di stile e di pensiero di questo autore sovranamente libero e alieno da tutte le chiese e i salotti dell’apartheid politico italiano, e rappresenta oggi forse più che allora una staffilata alla nostra inerzia materiale e morale. Non mi sembra inoltre privo di qualche collegamento con le riflessioni sulla povertà che Alessandro Bellan ha recentemente condotto su questo blog.
Goffredo Parise scrive a macchina«Questa volta non risponderò ad personam, parlerò a tutti, in particolare però a quei lettori che mi hanno aspramente rimproverato due mie frasi: «I poveri hanno sempre ragione», scritta alcuni mesi fa, e quest’altra: «il rimedio è la povertà. Tornare indietro? Sì, tornare indietro», scritta nel mio ultimo articolo.
Per la prima volta hanno scritto che sono “un comunista”, per la seconda alcuni lettori di sinistra mi accusano di fare il gioco dei ricchi e se la prendono con me per il mio odio per i consumi. Dicono che anche le classi meno abbienti hanno il diritto di “consumare”.
Lettori, chiamiamoli così, di destra, usano la seguente logica: senza consumi non c’è produzione, senza produzione disoccupazione e disastro economico. Da una parte e dall’altra, per ragioni demagogiche o pseudo-economiche, tutti sono d’accordo nel dire che il consumo è benessere, e io rispondo loro con il titolo di questo articolo.
Il nostro paese si è abituato a credere di essere (non ad essere) troppo ricco. A tutti i livelli sociali, perché i consumi e gli sprechi livellano e le distinzioni sociali scompaiono, e così il senso più profondo e storico di “classe”. Noi non consumiamo soltanto, in modo ossessivo: noi ci comportiamo come degli affamati nevrotici che si gettano sul cibo (i consumi) in modo nauseante. Lo spettacolo dei ristoranti di massa (specie in provincia) è insopportabile. La quantità di cibo è enorme, altro che aumenti dei prezzi. La nostra “ideologia” nazionale, specialmente nel Nord, è fatta di capannoni pieni di gente che si getta sul cibo. La crisi? Dove si vede la crisi? Le botteghe di stracci (abbigliamento) rigurgitano, se la benzina aumentasse fino a mille lire tutti la comprerebbero ugualmente. Si farebbero scioperi per poter pagare la benzina. Tutti i nostri ideali sembrano concentrati nell’acquisto insensato di oggetti e di cibo. Si parla già di accaparrare cibo e vestiti. Questo è oggi la nostra ideologia. E ora veniamo alla povertà.
Povertà non è miseria, come credono i miei obiettori di sinistra. Povertà non è “comunismo”, come credono i miei rozzi obiettori di destra.
Povertà è una ideologia, politica ed economica. Povertà è godere di beni minimi e necessari, quali il cibo necessario e non superfluo, il vestiario necessario, la casa necessaria e non superflua. Povertà e necessità nazionale sono i mezzi pubblici di locomozione, necessaria è la salute delle proprie gambe per andare a piedi, superflua è l’automobile, le motociclette, le famose e cretinissime “barche”.
Povertà vuol dire, soprattutto, rendersi esattamente conto (anche in senso economico) di ciò che si compra, del rapporto tra la qualità e il prezzo: cioè saper scegliere bene e minuziosamente ciò che si compra perché necessario, conoscere la qualità, la materia di cui sono fatti gli oggetti necessari. Povertà vuol dire rifiutarsi di comprare robaccia, imbrogli, roba che non dura niente e non deve durare niente in omaggio alla sciocca legge della moda e del ricambio dei consumi per mantenere o aumentare la produzione.
Povertà è assaporare (non semplicemente ingurgitare in modo nevroticamente obbediente) un cibo: il pane, l’olio, il pomodoro, la pasta, il vino, che sono i prodotti del nostro paese; imparando a conoscere questi prodotti si impara anche a distinguere gli imbrogli e a protestare, a rifiutare. Povertà significa, insomma, educazione elementare delle cose che ci sono utili e anche dilettevoli alla vita. Moltissime persone non sanno più distinguere la lana dal nylon, il lino dal cotone, il vitello dal manzo, un cretino da un intelligente, un simpatico da un antipatico perché la nostra sola cultura è l’uniformità piatta e fantomatica dei volti e delle voci e del linguaggio televisivi. Tutto il nostro paese, che fu agricolo e artigiano (cioè colto), non sa più distinguere nulla, non ha educazione elementare delle cose perché non ha più povertà.
Il nostro paese compra e basta. Si fida in modo idiota di Carosello (vedi Carosello e poi vai a letto, è la nostra preghiera serale) e non dei propri occhi, della propria mente, del proprio palato, delle proprie mani e del proprio denaro. Il nostra paese è un solo grande mercato di nevrotici tutti uguali, poveri e ricchi, che comprano, comprano, senza conoscere nulla, e poi buttano via e poi ricomprano. Il denaro non è più uno strumento economico, necessario a comprare o a vendere cose utili alla vita, uno strumento da usare con parsimonia e avarizia. No, è qualcosa di astratto e di religioso al tempo stesso, un fine, una investitura, come dire: ho denaro, per comprare roba, come sono bravo, come è riuscita la mia vita, questo denaro deve aumentare, deve cascare dal cielo o dalle banche che fino a ieri lo prestavano in un vortice di mutui (un tempo chiamati debiti) che danno l’illusione della ricchezza e invece sono schiavitù. Il nostro paese è pieno di gente tutta contenta di contrarre debiti perché la lira si svaluta e dunque i debiti costeranno meno col passare degli anni.
Il nostro paese è un’enorme bottega di stracci non necessari (perché sono stracci che vanno di moda), costosissimi e obbligatori. Si mettano bene in testa gli obiettori di sinistra e di destra, gli “etichettati” che etichettano, e che mi scrivono in termini linguistici assolutamente identici, che lo stesso vale per le ideologie. Mai si è avuto tanto spreco di questa parola, ridotta per mancanza di azione ideologica non soltanto a pura fonia, a flatus vocis ma, anche quella, a oggetto di consumo superfluo.
I giovani “comprano” ideologia al mercato degli stracci ideologici così come comprano blue jeans al mercato degli stracci sociologici (cioè per obbligo, per dittatura sociale). I ragazzi non conoscono più niente, non conoscono la qualità delle cose necessarie alla vita perché i loro padri l’hanno voluta disprezzare nell’euforia del benessere. I ragazzi sanno che a una certa età (la loro) esistono obblighi sociali e ideologici a cui, naturalmente, è obbligo obbedire, non importa quale sia la loro “qualità”, la loro necessità reale, importa la loro diffusione. Ha ragione Pasolini quando parla di nuovo fascismo senza storia. Esiste, nel nauseante mercato del superfluo, anche lo snobismo ideologico e politico (c’è di tutto, vedi l’estremismo) che viene servito e pubblicizzato come l’élite, come la differenza e differenziazione dal mercato ideologico di massa rappresentato dai partiti tradizionali al governo e all’opposizione. L’obbligo mondano impone la boutique ideologica e politica, i gruppuscoli, queste cretinerie da Francia 1968, data di nascita del grand marché aux puces ideologico e politico di questi anni. Oggi, i più snob tra questi, sono dei criminali indifferenziati, poveri e disperati figli del consumo.
La povertà è il contrario di tutto questo: è conoscere le cose per necessità. So di cadere in eresia per la massa ovina dei consumatori di tutto dicendo che povertà è anche salute fisica ed espressione di se stessi e libertà e, in una parola, piacere estetico. Comprare un oggetto perché la qualità della sua materia, la sua forma nello spazio, ci emoziona.
Per le ideologie vale la stessa regola. Scegliere una ideologia perché è più bella (oltre che più “corretta”, come dice la linguistica del mercato degli stracci linguistici). Anzi, bella perché giusta e giusta perché conosciuta nella sua qualità reale. La divisa dell’Armata Rossa disegnata da Trotzky nel 1917, l’enorme cappotto di lana di pecora grigioverde, spesso come il feltro, con il berretto a punta e la rozza stella di panno rosso cucita a mano in fronte, non soltanto era giusta (allora) e rivoluzionaria e popolare, era anche bella come non lo è stata nessuna divisa militare sovietica. Perché era povera e necessaria. La povertà, infine, si cominci a impararlo, è un segno distintivo infinitamente più ricco, oggi, della ricchezza. Ma non mettiamola sul mercato anche quella, come i blue jeans con le pezze sul sedere che costano un sacco di soldi. Teniamola come un bene personale, una proprietà privata, appunto una ricchezza, un capitale: il solo capitale nazionale che ormai, ne sono profondamente convinto, salverà il nostro paese». 





  1. Rispetto all’orrore presente, la frenesia consumistica descritta da Parise nel biennio dell’austerity (1974-75) nella raccolta (dal titolo curiosamente sartriano) “Dobbiamo disobbedire” aveva o poteva avere – almeno – il senso di una riscoperta del desiderio, di una frenesia vitale mediata da oggetti, di un appetito incontenibile, per quanto malato e incapace di “conoscere le cose per necessità”, inetto a “comprare un oggetto perché la qualità della sua materia, la sua forma nello spazio, ci emoziona”.
    Penso che quello che Baudrillard aveva battezzato “il sistema degli oggetti” abbia finito per sostituirsi ad ogni altra forma di legame sociale, riorganizzandola, colonizzandola, imponendo la propria logica, il proprio ordine del discorso e quindi il proprio dominio. È come se si trattasse di una perversione della mimesi: percepirci come oggetti, imitarne l’inerzia, l’autonomo sussistere per sé, ci fa sentire bene o, almeno, un po’ meglio. Ecco a cosa siamo arrivati: essere un “sé”, un “soggetto”, un “individuo autonomo” capace di prendere decisioni, una “persona” insomma, pesa, disturba, mette a disagio. Molto meglio obbedire, molto più comodo farsi includere nella serialità: l’esteriorità (le condizioni materiali di esistenza, il “modo di produzione”) produce infatti negli uomini una struttura d’inerzia – un’oggettualità ad essi affine – attraverso il loro stesso agire. Grazie ad essa essi possono continuare ad essere quello che sono; grazie a quello che sono quel “sistema degli oggetti” può continuare ad essere quello che è – una totalità mantenuta in vita grazie alla mancanza fatta avvertire alle sue vittime che in realtà non mancano di nulla.
    Non riusciamo a godere, contemporaneamente, della quantità e della qualità, perché la prima fagocita la seconda e la seconda si presenta immediatamente sempre e solo come quantità. Abbiamo a portata di mano oltre a una fantasmagoria di oggetti, reali e virtuali, automatizzati e non, infinite possibilità di relazione interumana, abbiamo l’universo della comunicazione in pugno, ma tutto si riduce ancora e sempre all’immane raccolta di merci – reali o virtuali – del Capitale. E però sempre più autonomizzate, sempre più indipendenti dai produttori, trascendenti quasi, rispetto alle quali non desideriamo altro che avventarci come parassiti famelici, incuranti delle conseguenze personali, collettive, ambientali di un consumo divenuto estraneo sia alla logica dei bisogni che al principio di realtà. Aspiriamo soltanto – da bravi «affamati nevrotici che si gettano sul cibo (i consumi) in modo nauseante», come scrive Parise – a non essere esclusi dal banchetto predisposto dall’ideologia della “produzione per la produzione”. Forse negli oggetti sopravvive ancora un pezzo di utopia, l’idea di una felicità dell’umano con le cose e non senza di esse (come in Husserl), perché nella loro trascendenza-immanenza l’uomo ha proiettato «l’autonomia della sua coscienza, il potere di controllo, l’individualità specifica, l’idea della sua persona». Così come c’è una trascendenza formale, della persona, allora, si dispiega anche una “trascendenza funzionale” (Baudrillard): «Ciò che mi rende felice sopra ogni altra cosa è l’esser diventato proprietà del dottor Max» (Parise, “Il padrone”, Adelphi).

  2. Aggiungo solo un’ultima considerazione (scusandomi per l’insolito intervento in due tempi): negli spazi protetti, reali e virtuali, in cui oggi si svolge il rituale del consumo di massa (i mall center americani, gli ipermercati, gli outlet, i MacDonald’s, le grandi catene dell’elettronica di consumo, gli store on line, ecc.) l’individuo si sente avvolto da una grande rete protettiva: il suo desiderio è perciò immediatamente “linkato” a quello di tutti gli altri (ved. Lacan e Girard); è anzi protetto, incoraggiato, decolpevolizzato e quindi – come scrive Barber – “infantilizzato”, trasformato istantaneamente da “cittadino” in “cliente”. Il cliente vive nella merce, immediatamente, senza intermediari, il suo sogno di disposizione illimitata dell’esistente, la sua fantasia regressiva di trascendenza: ciascuno è stimolato a verificare di persona la merce esposta, da verdura e frutta negli ipermercati ai gadget nei centri specializzati in elettronica di consumo, fino alle preview del web.
    Rispetto agli anni Settanta di Parise (i cui strali contro il consumismo ricordano il Discorso sull’economia politica di Rousseau), oggi il consumo è, ovunque, ancora più automatizzato, per il fatto di avvenire in uno spazio pubblico, intersoggettivo, dove l’unico mediatore residuo è il denaro (la cui disponibilità peraltro costituisce un limite relativo grazie all’invenzione delle revolving cards). Sulla logica che presiede a questa estensione del dominio mercantile è ancora molto utile la lettura di Emile Zola, Au bonheur des dames (1883, tr. it. Al paradiso delle signore, BUR 2000), vero romanzo distopico della merce, profezia di quell’outlet nel frattempo diventato l’unico orizzonte, la terra promessa (e mantenuta) dell’homo consumens, felice canto del cigno del pensiero critico.
    Ma allora l’unica forma di resistenza al McMondo consumistico è la versione fanatica della povertà radicale, ovvero la guerra santa, il Jihad, che vuole la distruzione non solo del mercato ma anche della democrazia in nome di una teocrazia fondamentalista e pauperista? Davvero non ci resta altro che l’alternativa secca tra il “riconoscere l’ineluttabilità dell’infantilizzazione” consumerista da una parte, e l’assolutismo teologico e morale di chi rifiuta democrazia e mercato in nome di una risacralizzazione antimoderna del politico dall’altra? Se è giusto rifiutare tale aut-aut, non sembra restare altro che “accontentarci di stendere ghirlande di fiori sulle nostre dolci, confortevoli catene” (B. Barber).
    Letture d’obbligo: B.R. Barber, Jihad vs. McWorld (2001; tr. it. Guerra santa contro McMondo, Tropea 2002); Id., Con$umed. How Markets Corrupt Children, Infantilize Adults, and Swallow Citizens Whole (2007; tr. it. Consumati. Da cittadini a clienti, Einaudi 2010; la citazione finale è tratta da quest’ultimo testo)

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