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Scartabellando nella mia piccola biblioteca ho ritrovato e riletto la storia d " un esteta decadente ... "



Eliogabalo o l'anarchico incoronato

Incipit

Se intorno al cadavere di Eliogabalo, morto senza tomba, e sgozzato dalla sua polizia nelle latrine del proprio palazzo, vi è un'intensa circolazione di sangue e di escrementi, intorno alla sua culla vi è un'intensa circolazione di sperma. Eliogabalo è nato in un'epoca in cui tutti fornicavano con tutti; È né si saprà mai dove e da chi fu realmente fecondata sua madre. Per un principe siriano, quale egli fu, la filiazione avviene attraverso le madri ; – e, in fatto di madri, vi è intorno a questo figlio di cocchiere, appena nato, una pleiade di Giulie; – e ch'esse influiscano o no su un trono, tutte queste Giulie sono delle fiere puttane.






Un rifiuto della storia: Eliogabalo,
l'imperatore che morì nella cloaca

1. Eliogabalo il “Trascinato” / 2. Il dissoluto per antonomasia / 3. Eliogabalo esteta decadente / 4. L’imperatore anarchico / 5. Super-Eliogabalo / 6. Intervista dalla Cloaca Massima

1. Eliogabalo il "Trascinato"


«Fu assalito […] e ucciso in una latrina in cui aveva cercato di rifugiarsi. Fu poi trascinato per le vie. Per colmo di disonore, i soldati gettarono il cadavere in una fogna. Poiché il caso volle che la cloaca risultasse troppo stretta per ricevere il corpo, lo buttarono giù dal ponte Emilio nel Tevere, con un peso legato addosso perché non avesse a galleggiare, di modo che non potesse aver mai a ricevere sepoltura. Prima di essere precipitato nel Tevere, il suo cadavere fu anche trascinato attraverso il Circo. Per ordine del senato fu cancellato dalle iscrizioni il nome di Antonino, che egli aveva assunto pretestuosamente, volendo apparire figlio di Antonino Bassiano, e gli rimase quello di Vario Eliogabalo. Dopo la morte fu chiamato il "Tiberino", il "Trascinato" l'"Impuro" e in molti altri modi, ogniqualvolta capitava di dare un nome ai fatti della sua vita. E fu il solo tra tutti i principi ad essere trascinato, buttato in una cloaca, ed infine precipitato nel Tevere». Così è descritta la singolare fine di Eliogabalo (imperatore tra il 218 e il 222) [1] nella Historia Augusta (17,17,1-6) [2], opera «sin­golarissima e misteriosissima», secondo la definizione dell'ultimo editore italiano; basti ricordare che ci sono dubbi sulla paternità, sulla data e sul suo significato. Quanto all'autore, è stata a lungo discussa la tradizionale attribuzione a Elio Lampridio; per diversi motivi (incongruenze interne, citazioni dello storico Aurelio Vittore, vissuto intorno al 360 d.C.) si è giunti alla conclusione che ci troviamo comunque di fronte all'opera di un solo autore, sia che si tratti della rielaborazione di opere antecedenti, o di una vera e propria falsificazione parodistica, databile probabilmente intorno alla fine del IV sec. Ancora più problematica l'interpretazione del significato delle Vite: secondo l'ipotesi più accreditata esse riflettono un ambiente tradizionalista e filosenatorio, contrario all'ascesa di novi homines [3]. La fine di Eliogabalo viene in effetti giustificata con questa affermazione: «Questo accadde per il generale odio di tutti, dal quale gli imperatori debbono guardarsi in maniera particolare, dato che chi non riesce a guadagnarsi l'amore del senato, del popolo e dei soldati, non merita neppure la sepoltura». Tale interpretazione trova conferma nella costante contrapposizione tra Alessandro Severo (imperatore tra il 222 e il 235), idealizzato per la sua politica filosenatoria, ed Eliogabalo: un mostro che disprezza e ridicolizza il senato sin dal suo arrivo a Roma, quando «diede ordine che sua madre fosse invitata a parteciparvi. […] Egli fu l'unico fra tutti gli imperatori sotto il cui regno una donna … entrò in senato», come si preoccupa di precisare Lampridio, aggiungendo (18,2) che dopo Eliogabalo «la prima cosa che ci si preoccupò di stabilire fu che mai più una donna potesse entrare in senato, e che chi si fosse reso responsabile del verificarsi di un fatto del genere, fosse condannato a morte e la sua memoria maledetta». Non manca tuttavia chi – come Ronald Syme [4] – ritiene che l'opera sia il divertissement di un dotto senza scrupoli che ha costellato la sua narrazione di invenzioni di ogni genere per un pubblico desideroso di curiosità erudite e scabrose. In questo caso ci troveremmo di fronte ad una dissacrante e compiaciuta rappresentazione di eccessi viziosi e particolari piccanti, per certi versi non molto lontana, come vedremo, dal Super-Eliogabalo di Arbasino.
Qualunque chiave di lettura si voglia adottare, nel ritratto di Lampridio Eliogabalo è oggetto di ostentato disprezzo, in piena coerenza con la fine ingloriosa che gli viene attribuita. Già in apertura della Vita l'autore manifesta una certa ripugnanza per la materia trattata: «non mi sarei mai risolto a scrivere la vita di Antonino Eliogabalo» – afferma – «nella speranza che nessuno sapesse che egli era stato un imperatore romano»; Eliogabalo viene infatti collocato sullo stesso piano «dei Caligola, dei Neroni, dei Vitelli», gli imperatori 'cattivi' il cui ricordo dovrebbe essere rimosso, se non permettesse di «apprezzare la capacità di discernimento dei Romani», che riservarono loro una morte violenta e la cancellazione della memoria [5]: un destino rappresentato iconicamente dalla cloaca in cui finisce Eliogabalo. Vergogna e disgusto affiorano anche nell'appello finale al dedicatario, l'imperatore Costantino, a cui lo storico porge esplicitamente le sue scuse (34, 2-3): «Sento il bisogno di scusarmi se ho dovuto riferire cose come queste, che pure ho ricavato da diverse fonti, per quanto abbia cercato di tacere su molti episodi disgustosi e a cui non si può neppure accennare senza provare la più profonda vergogna; quello che poi non ho potuto fare a meno di dire, mi sono sforzato di velarlo usando, nei limiti del possibile, dei giri di parole». E ancora, ponendo Eliogabalo tra gli imperatori 'pessimi' afferma di aver scritto tutto «controvoglia e riluttante».
Tra i tanti aspetti della personalità di Eliogabalo su cui si appunta il disprezzo dello storico, uno in particolare incuriosisce: si tratta delle innovazioni introdotte dall'imperatore, un argomento che nelle biografie imperiali occupa una rubrica specifica, solitamente in funzione di elogio [6]. Nel caso di Eliogabalo invece, viene sottolineato il carattere futile e irrisorio delle invenzioni. Gli ambiti di eccellenza dell'imperatore ri­guar­dano infatti l'abbligliamento, la cucina, l'arredamento e gli scherzi: «Fu il primo cittadino privato a coprire i letti con coperte trapuntate d'oro. … Fu anche il primo a possedere for­nel­li e pentole d'argento, e per primo inoltre vasi cesellati, sempre d'argento, del peso di cento libbre ciascuno, e alcuni raffiguranti le scene più sconce. … Per primo inventò il vino aromatizzato con la resina di lentischio o con la menta e tutto questo genere di misture che sono ancora oggi di moda tra le persone raffinate. … Per primo fece fare le polpette con carne di pesce e di ostriche, litostriche e altri simili molluschi marini, e di gamberi, calamari e squille. A molti degli amici di più bassa condizione faceva trovare, al posto dei normali divani di mensa, dei cuscini pieni d'aria e, durante il pranzo, li faceva sgonfiare, così che spesso i poveretti si ritrovavano all'improvviso a mangiare sotto il tavolo. Fu così che egli per primo ebbe ad escogitare la trovata di far disporre il semicerchio dei sedili per terra, anziché sui letti tricliniari, per rendere possibile agli schiavetti che stavano ai piedi degli ospiti di sciogliere e sgonfiare i cuscini». Primeggiò anche nel sesso (33,1): «Escogitò certi generi di godimenti pervertiti, così da superare in ciò gli amasii dei suoi predecessori viziosi, ed era ben al corrente di tutti gli apparati di depravazione di Tiberio, di Caligola e di Nerone». L'originalità della sua morte, dunque, trova una precisa corrispondenza nella sua vita.

2. Il dissoluto per antonomasia


L'immagine di cattivo imperatore fornita dall'Historia Augusta è confermata dalle altre fonti che recano notizia del personaggio: gli storici greci Dione Cassio (per Eliogabalo, in realtà, ne abbiamo solo un'epitome [7]) e Erodiano, entrambi vissuti tra II e III secolo d.C. e quindi anteriori a Lampridio. Tra i due, pure accomunati dal ricorso ad una topica consolidata nella caratterizzazione degli imperatori 'cattivi', è stata ravvisata qualche differenza di prospettiva: Dione, un alto funzionario imperiale saldamente iscritto in un orizzonte filosenatorio, insiste maggiormente, in linea con Lampridio, sui vizi dell'imperatore (soprattutto sulle relazioni sessuali che lo rendono dipendente da personaggi di bassa condizione). Erodiano, di estrazione sociale inferiore, sembra più colpito dall'attività religiosa di Eliogabalo, culturalmente più vicino all'Oriente 'barbaro' che al mondo greco [8]. Le tre opere storiche, pur con diverse sfumature, concorrono a definire, come tratti distintivi del personaggio, l'arbitrio, la dissipazione, la lussuria: elementi destinati a sclerotizzarsi nei secoli successivi. Un'immagine negativa doveva essere data dal carme intitolato Antonino Eliogabalo (Auson. 23 = I Cesari, vv. 138-139) di Decimo Magno Ausonio, uomo politico e scrittore originario di Bordeaux, vissuto nel IV sec.; del componimento restano solo i primi due versi: «Osi ancora insozzare le stanze di Augusto, tu che porti falsamente il nome degli Antonini?» (Tune etiam Augustae sedis penetralia foedas, / Antoninorum nomina falsa gerens?), dove l'autore riecheggia chiaramente la polemica di Lampridio contro l'adozione del nome di Antonino da parte di Eliogabalo, che col suo comportamento avrebbe corrotto quel nome. All'inizio del V secolo lo storico Orosio avrebbe tratteggiato così il regno di Eliogabalo: «Nell'anno 970 dalla fondazione di Roma, Marco Aurelio Antonino, ottenuto l'impero come ventesimo da Augusto, lo tenne per quattro anni. Questi, sacerdote del tempio di Eliogabalo, non lasciò altra memoria di sé se non quella assai infamante di stupri, delitti e di ogni tipo di oscenità. Durante una rivolta militare fu ucciso a Roma con la madre». (Le storie contro i pagani, 7,18,4-5). E la figura delineata dalla storiografia antica riappare, inalterata, nelle pagine di Gibbon, per cui Eliogabalo «corrotto dalle passioni della gioventù, dai costumi della patria e dalla sua propria prosperità, si abbandonò ai piaceri più grossolani con sfrenato furore, e nei godimenti trovò presto la sazietà e la nausea»; nel riferirne la morte, poi, lo storico settecentesco si allinea apertamente al giudizio degli antichi: «Il senato bollò la sua memoria di perpetua infamia, e i posteri hanno ratificato questa giusta sentenza» [9]. Anche al di fuori dal genere storiografico Eliogabalo diventa l'icona del potente lascivo e pazzo, dedito al lusso e ai piaceri più sfrenati. Spesso è menzionato per le sue frivole invenzioni: Daniello Bartoli (La ricreazione del savio 1,12, 577) [10], nel concludere un suo discorso sulle caratteristiche dei fiori, spiega di non voler approfittare oltre della pazienza dei suoi lettori: «ché io vo' qui ricrearne l'ingegno, non affogarvelo dentro, come faceva Eliogabalo con i suoi amici, con una nuova invenzione di morte troppo acerbamente deliziosa»; l'erudito allude scherzosamente all'uso di un particolare apparato conviviale che consentiva a Eliogabalo di riversare sui suoi ospiti un pioggia di fiori, con il rischio di soffocarli («facendo azionare il soffitto girevole di certi triclinii, sommergeva i suoi parassiti con una pioggia di viole e altri fiori, tanto che alcuni, non riuscendo a risalire alla superficie, vi morirono soffocati», Hist. Aug. 17,21,5). Che la sontuosità dei banchetti di Eliogabalo fosse divenuta proverbiale, è dimostrato ad esempio da un episodio dei Viaggi di Gulliver di Jonathan Swift (1726), in cui il protagonista, ricevuto dal governatore di Glubbdubdrib, avendo la possibilità di incontrare alcuni personaggi del passato (da Socrate e Epaminonda fino a Tommaso Moro), non rinuncia a un pranzo cucinato dai cuochi di Eliogabalo: «Passai cinque giorni a conversare con molti altri sapienti dell'antichità e vidi la maggior parte dei primi imperatori romani. Indussi il governatore a evocare i cuochi di Eliogabalo perché ci allestissero un pranzo, ma non poterono dar prova della loro perizia, per mancanza di materiali» [11]. Anche Manzoni (Promessi Sposi 5,86) ricorre a Eliogabalo come iperbolico termine di confronto per ironizzare sull'abbondanza della tavola di Don Rodrigo in tempo di carestia: «i pranzi dell'illustrissimo signor don Rodrigo vincono le cene d'Eliogabalo; […] la carestia è bandita e confinata in perpetuo da questo palazzo, dove siede e regna la splendidezza». Per questa via si giunge fino al romanzo di Kurt Vonnegut, La colazione dei campioni (1973) una feroce satira della società americana, le cui stravaganze sono interpretate come evidenti segni di malattia e di decadenza. Nel dialogo surreale tra un eccentrico scrittore di romanzi di fantascienza e il suo pappagallo Bill, Eliogabalo viene chiamato in causa a simboleggiare l'umanità corrotta, colpevole di aver causato, con la sua ferocia, la rovina del pianeta: «"Siamo tutti Eliogabali, Bill" gli diceva. Così si chiamava un imperatore romano che si fece fare da uno scultore un toro di ferro, vuoto dentro e di grandezza naturale, con uno sportello che si chiudeva da fuori. Il toro aveva la bocca spalancata, e questa era la sola altra apertura verso l'esterno. Eliogabalo faceva entrare una creatura umana per lo sportello, che poi veniva chiuso da fuori. I rumori che l'essere umano faceva all'interno del toro venivano fuori da una bocca spalancata. L'imperatore invitava gente a una bella festa, con abbondanza di cibo e vini e belle donne e bei ragazzini, dopodiché faceva accendere della ramaglia da un servo. La ramaglia stava sotto a della legna che stava sotto al toro» [12]. In realtà nella tradizione greca e latina il toro di metallo è addebitato alla crudeltà di Falaride, tiranno di Agrigento [13]; sembra inoltre estranea all'aneddotica antica la spettacolarizzazione della tortura, che il personaggio di Vonnegut immagina crudelmente attuata sullo sfondo di un convivio: proprio questo particolare, peraltro, rende plausibile l'attribuzione della trovata a Eliogabalo, le cui bizzarre invenzioni avevano spesso a che fare con il banchetto.

3. Eliogabalo esteta decadente


All'immagine stereotipata di Eliogabalo sopravvissuta fino a oggi, già dalla fine dell'Ottocento se ne affianca un'altra, risultato di una radicale rivalutazione. È del resto ben noto l'interesse suscitato nella sensibilità fin de siècle dalle epoche cosiddette 'decadenti'; a questi periodi, in cui si vede il tramonto e insieme il culmine di una civiltà, viene attribuita un'estrema raffinatezza estetica, terreno fertile per il formarsi di individualità eccezionali, in cui l'intellettuale tardo ottocentesco si identifica; su tale rispecchiamento è incentrato il celebre verso di Verlaine: «Sono l'Impero al limite estremo della decadenza» (Languore). La figura di Eliogabalo conosce allora una particolare fortuna, garantitagli proprio da quei tratti che, nel passato, ne avevano determinato la condanna: l'amore per il lusso, la perversione, il rifiuto delle convenzioni. Come icona di sontuosità è evocato, assieme ad altri personaggi simbolici, dallo stesso Verlaine (Rassegnazione in Poesie saturnine, 1-3): «Bambino, andavo sognando Ko-Hinnor, / sontuosità persiana e papale, / Eliogabalo e Sardanapalo!» [14]; analogamente nel Ritratto di Dorian Grey di Wilde (1891) Eliogabalo compare, con altri imperatori 'corrotti', tra le figure a cui si ispira l'eroe di un romanzo alla moda (il misterioso Yellow book) che Dorian, a sua volta, elegge come modello di vita: «novello Caligola, aveva gozzovigliato con i fantini dalle tuniche verdi, nelle loro scuderie e aveva pranzato in una mangiatoia d'avorio, insieme ad un cavallo dal frontale ingemmato. Come Domiziano, aveva errato in un corridoio dai muri di marmo politi come specchi, cercando con lo sguardo il riflesso della daga che doveva por fine ai suoi giorni, ammalato di quella noia, di quel taedium terribile castigo di quelli cui la vita nulla nega … come Eliogabalo, aveva imbellettato il viso, e con le donne aveva filato la lana, e aveva trasportato la Luna da Cartagine per unirla in matrimonio mistico col Sole» [15]. Rispetto agli imperatori a cui è accostato, Eliogabalo si distingue qui per l'ambiguità sessuale e il misticismo.
D'Annunzio nel suo Libro segreto, rievocherà ancora una volta, ma con una connotazione decisamente positiva, lo sfarzo della «via lastricata di marmo laconico e di porfido da Eliogabalo» [16]; ma l'esempio più significativo e organico della rivalutazione decadentista di Eliogabalo rimane la raccolta di poesie Algabal, di Stefan George (1892). L'opera è dedicata a Ludovico II di Baviera, il re esteta che George percepisce come affine a sé per creatività e stravaganza; Algabal è detto «fratello minore» di Ludovico, sia perché (come sottolinea la Bornmann nel commento alla dedica [17]) «Eliogabalo morì diciottenne – l'età vissuta lo fissa dunque come giovinetto rispetto al quarantunenne Ludovico – sia perché nella prodigalità, nella smisurata fantasia creatrice, nell'isolamento e nella determinazione ad abbandonare volontariamente la vita, il re bavarese appare come un fratello maggiore più forte e deciso». Significativa la scelta di Algabal, una forma non attestata del nome di Eliogabalo, dovuta, come spiega lo stesso George, a esigenze puramente eufoniche: Algabal suona più armonioso all'orecchio del poeta. Lo stesso approccio estetizzante viene adottato da George nella selezione del materiale offerto dalle fonti antiche (Erodiano, Cassio Dione, ma soprattutto Lampridio), a lui ben note: i tratti più volgari e degradanti, come la dipendenza dalla madre e dalla nonna, la morte nella cloaca, vengono trascurati, mentre l'accento cade sulla passione estetica e sul misticismo. Algabal è dunque l'ennesima incarnazione dell'esteta decadente, sulla scia del Des Esseintes di Huysmans, di cui condivide il gusto per il lusso, per l'artificio e per la bellezza: in Giorni «porta una veste serica turchina / disseminata di agate e zaffiri / baccellata d'argento intorno ai bordi; / ma le braccia non ornano monili»; trascorre il suo tempo in «sale fastose», che il poeta rievoca recuperando dettagli dalle fonti antiche. George segue gli storici antichi anche nel fare di Algabal un sacerdote, più che un sovrano: divenuto imperatore, egli rimpiange l'infanzia in Siria, quando poteva dedicarsi esclusivamente al culto divino «giorni grandi, quando il mio spirito imperava, / giorno infausto quando i templi ripudiai della mia patria» (Die Andenken). Nella dedizione di Algabal al culto pagano del Sole, presentato come una sorta di religione del Bello, che si pone al di là dell'Umano, George manifesta l'influenza di Nietzsche, in polemica con il cristianesimo e la morale tradizionale.
In un simile orizzonte si attua prevedibilmente la totale rimozione della morte nella cloaca, episodio assai poco funzionale alla rivalutazione estetizzante del personaggio.

4. L'imperatore anarchico


Eccoci giunti al Novecento, un secolo che offre numerosi e interessanti esempi delle oscillazioni a cui la figura di Eliogabalo è soggetta con il variare delle coordinate culturali: il percorso proposto qui è necessariamente scorciato e selettivo [18]. È prevedibile che un personaggio del genere non potesse suscitare alcuna simpatia nella cultura di regime del Ventennio fascista. La condanna del degenerato Eliogabalo è inappellabile nella introduzione di Cristina Agosti-Garosci a una traduzione dell'Iridione di Zygmunt Krasinski datata 1926 e aperta da una solenne dedica al «Duce d'Italia» [19]. L'Iridione, pubblicato nel 1836, è un dramma patriottico in cui il polacco Krasinski offre un'immagine degradata della Roma tardo imperiale paragonandola implicitamente al potente im­pero russo, oppressore della Polonia. Nell'opera Eliogabalo compare solo in alcune scene, oggetto inconsapevole di un complotto ordito dal protagonista Iridione, che desidera così vendicare la sua patria, la Grecia, da secoli oppressa dalla potenza romana. Nella sua Introduzione la Garosci (p. 26) descrive in questi termini l'Eliogabalo di Krasinski: «La figura di Eliogabalo è mirabilmente scelta a rappresentare la decrepitezza e la corruzione dell'impero. Egli non è un romano, è uno straniero, nato sotto il cielo ardente del­l'Asia, nutrito del molle e osceno culto di Mitra; è un fanciullo con istinti di vegliardo, non ha passioni, ma solo curiosità, il vuoto mortale del suo spirito è illuminato dal fuoco fatuo della lascivia. Al suo fianco consiglieri venali, sacerdoti dei misteri orientali, buffoni … pretoriani imbelli mirabilmente completano il quadro della decadenza dell'impero».
Appena una decina di anni dopo, nel 1934 esce in Francia l'Eliogabalo di Artaud [20]. L'opera, che si colloca tra il saggio biografico e il romanzo storico, esprime tutta l'insofferenza dell'autore per la cultura francese e per la civiltà europea contemporanea. Si tratta di una radicale rivalutazione di Eliogabalo, che non esclude, ma anzi enfatizza polemicamente tutti i tratti sgradevoli e degradati evitati dagli esteti del decadentismo. L'analisi vera e propria della vita di Eliogabalo è presentata nel capitolo III, L'Anarchia, a partire dalle fonti, in particolare da Lampridio: questi ricorda che Eliogabalo a Roma (la traduzione è di Artaud, molto vicina all'originale) «si compiaceva… di far rappresentare la favola di Paride; egli stesso vi interpretava il ruolo di Venere, e lasciando im­prov­visamente cadere sino ai piedi le vesti, interamente nudo, una mano sul seno, l'altra sui genitali, s'inginocchiava, e, sollevato il posteriore, lo offriva ai compagni di corruzione» (pp. 107-108). In Lampridio Artaud coglie non tanto una intonazione moralistica, quanto piuttosto il timore della dissacrazione: «per Lampridio, questa rappresentazione al naturale e davanti a centomila persone della favola di Venere e di Paride, con lo stato febbrile ch'essa crea, coi miraggi che suscita, è un esempio d'anarchia pericolosa, è la poesia e il teatro posti sul piano della realtà più veridica» (p. 108). In realtà, l'apparente con­traddizione con leggi e costumi romani, «quell'esempio di anarchia che consiste per un imperatore romano, nel prendere il vestito di un altro paese, e per un uomo nell'indossare abiti femminili…, quel che è anarchico dal punto di vista romano, è per Eliogabalo la fedeltà a un ordine» (p. 109), risponde alle leggi della religione cui è iniziato.
«Io vedo in Eliogabalo» – continua Artaud – «non un paz­zo, ma un insorto: 1) contro l'anarchia politeistica romana; 2) contro la monarchia romana … in lui le due ribellioni, le due insurrezioni si fondono, esse dirigono tutto il suo comportamento, esse comandano tutte le sue azioni sino alle più infime durante il suo regno di quattro anni» (p. 116). Accanto ad una ideologia che potremmo definire "democratica" perché «il popolo non è mai sfiorato, mai toccato dalla sua tirannia sanguinaria» (p. 123), in lui si manifesta soprattutto un gusto poetico per la sistematica dismisura, teorizzata a rischio della propria vita. Una vita che infatti si conclude nel modo più orribile, come risulta evidente dal tragico racconto di Artaud, assieme riscrittura e commento della narrazione di Lampridio: «Il Tevere è troppo lontano. I soldati troppo vicini. Eliogabalo, folle di paura, si getta a un tratto nelle latrine, si tuffa fra gli escrementi. È la fine. La truppa, che lo ha visto lo raggiunge; e già i suoi stessi pretoriani lo afferrano per i capelli. È una scena da macello, uno scempio ripugnante, un antico quadro di mattatoio. Gli escrementi si mescolano al sangue, scivolano a un tempo col sangue sulle spade che frugano nelle carni di Eliogabalo e di sua madre. Poi si traggono i loro corpi […] una folla immensa marcia verso il lungofiume […] "Alle fogne" urla ora il popolino che ha approfittato delle liberalità di Eliogabalo, ma che le ha troppo ben digerite. "Alle fogne i due cadaveri, il cadavere d'Eliogabalo, alle fogne!". Dopo essersi ben rimpinzata di sangue […] la truppa cerca di far passare il corpo d'Eliogabalo nella prima bocca di fogna in cui si imbatte. Ma benché sia sottile, è tuttavia troppo largo. Bisogna provvedere» (p. 129). Limato e piallato, il cadavere viene infine gettato nel Tevere; nel commento conclusivo all'episodio, Artaud ristabilisce il nesso tra la vita e la morte di Eliogabalo, ma – dandone una lettura di segno opposto rispetto a quella tradizionale – sull'analogia fa prevalere l'antitesi: «Così finisce Eliogabalo, senza epitaffio e senza tomba, ma con dei funerali atroci. È morto vilmente, ma in stato di aperta ribellione; e una simile vita, coronata da una tale morte, non ha bisogno, mi pare, di conclusione» (p. 130).

5. Super-Eliogabalo


La rilettura di Artaud rappresenta un punto di riferimento imprescindibile per la fortuna che Eliogabalo conosce nel secondo Novecento, segnato dalle esperienze della Neoavanguardia e quindi dall'esplosione del Post-moderno. Una tappa obbligata è, a questo punto, il Super-Eliogabalo di Alberto Arbasino [21]. Com­posto nel «fatale '68» e pubblicato nel 1969, il romanzo sfrutta tutte le risorse formali dell'avanguardia (dalle «parole in libertà», ai calligrammi, dalla citazione, al catalogo, alla filastrocca), spingendo all'estremo la mescolanza tra i generi. La narrazione si frantuma così in una successione di lunghi frammenti: dal corteo iniziale che accompagna Eliogabalo nel suo week-end a Ostia, fino all'apoteosi finale, in cui l'imperatore diventa dio a sorpresa compiendo anche buffi miracoli. Arbasino propone, come dice egli stesso, «una sfrenata performance contro ogni oppressione e repressione razionalistica, politica, culturale e scientifica». Trasgressivo e ostentatamente kitsch, il suo Eliogabalo è consapevole delle sue passate incarnazioni letterarie, più volte rievocate esplicitamente, a partire da Artaud, che rimane il modello fondamentale («Eliogabalo per Artaud è il Metternich dell'anarchia, il Pompidou del disordine, è un Machiavelli beatle che propone con strumenti sa­crosanti e sistematici di per-sov-vertire ogni gerarchia sacrosanta di valori grecoromani sclerosati», p. 47); rispetto ad Artaud, tuttavia, Arbasino sembra enfatizzare la dimensione ludica, in linea con le tendenze della neoavanguardia. Si tratta di un anticlassicismo ironico che affiora chiaramente nel rapporto con le fonti antiche; infatti, oltre ad Artaud, l'Eliogabalo di Arbasino legge gli storici che parlano (o meglio, sparlano) di lui: Cassio Dione, Erodiano e Lampridio, sui quali emette a sua volta giudizi impietosi: «quel Dione maldicente … però sempre meglio (forse) che l'insulso Lampridio o l'ottuso Erodiano» (p. 111) (quest'ultimo è altrove definito «una serva»). Lampridio, il «redattore gossip della Historia Augusta», viene letto «come se fosse un rotocalco dal parrucchiere»: per riderne (mentre legge, l'imperatore «ride, ride, ride continuamente» p. 65); ma alla fine Eliogabalo se ne stanca e lo getta in un fosso con un giudizio sprezzante («Difettoso centone mirante a compiacere i più abborracciati mercati elisabettiani e antifascisti. Ma con cadute inconsce e scadenti nel poverismo più stracciaculo» p. 98). Va detto che di tutti e tre gli storici sono riportati ampi stralci, di cui lo stesso Arbasino fornisce una traduzione irriverente, caricando di ironia il tono moralistico dell'originale: per coglierne il tenore basta qualche breve passo, ad esempio quello, tratto dall'epitome di Cassio Dione (80,16,1-2), in cui è rievocata la figura di Aurelio Zotico, amante plebeo di Eliogabalo; eccone la versione di Arbasino (p. 116): «Questo Aurelio non soltanto aveva un corpo tutto bello, facendo dell'atletica, ma in particolare superava enormemente chiunque altro per la grossezza dei suoi organi. Questa circostanza fu riferita all'Imperatore dai suoi agenti sempre all'erta per tali Grandi Organi, e così l'uomo fu immediatamente sottratto all'atletica e spedito a Roma». E, poco oltre: «Appena lo vide, Eliogabalo balzò in piedi a tempo di musica, e non appena Aurelio lo salutò con la formula di rito, "Kýrie Autokràtor, Kaîre" (Salve, Signor Imperatore), piegò il collo per assumere una posa graziosa e civettuola, e buttandogli addosso gli occhi ardenti gli rispose senza esitazione, "Mé me lège Kýrion; egò gàr Kýria eimì" (Non chiamarmi signore, sono una Signora, come nelle riviste!)». La sottolineatura ironica è ottenuta grazie a pochi, ma accorti espedienti: il più evidente è l'esplicitazione di elementi che il testo greco sottintende, come il riferimento ai «Grandi Organi» (con uso enfatico della maiuscola), dissimulati nell'originale da un pronome neutro (una traduzione più 'fedele' suonerebbe: «questa circostanza fu riferita all'Imperatore da coloro che erano alla ricerca di tali cose»); l'ironia si fa ancora più marcata nella descrizione dell'atteggiamento di Eliogabalo: mentre nell'originale l'accento cade, non senza disprezzo, sull'effeminatezza del personaggio (evidenziata dall'uso del verbo gynaikízo, «mi comporto da donna»), nella traduzione la «posa graziosa e civettuola» suggerisce, con un voluto e divertito anacronismo, l'atmosfera della rivista, esplicitamente rievocata nella traduzione dal greco della risposta di Eliogabalo («come nelle riviste!»): una deviazione dalla traduzione, da cui risulta più che mai evidente la completa assimilazione del testo antico nel tessuto del romanzo. Tra i diversi brani ripresi dagli storici antichi non mancano i resoconti della morte di Eliogabalo, sia nella versione di Lampridio, sia in quella di Erodiano. Anche qui sono presenti sottolineature ironiche: ad esempio in Lampridio i «fatti della sua vita» (quae sub eo facta videbantur) diventano «cosacce», ma soprattutto la rievocazione dell'episodio della cloaca («Fra tutti gli imperatori fu l'unico a venir trascinato e gettato in una fogna») è oggetto di aperta contestazione da parte del personaggio-lettore: piccato di essere considerato l'unico ad aver subito una simile sorte, Eliogabalo commenta: «Con tanti saluti alla Vita di Cola di Rienzo e buonanotte all'Edoardo II di Marlowe?» (p. 94). Più brusca la reazione all'analogo racconto di Erodiano: «Basta. Storiografia di destra. Butta via tutto» (p. 120). In effetti al Super-Eliogabalo di Arbasino tocca una fine ben diversa: vittima in un complotto ordito dal suo precettore in un Tempio del tutto simile a un enorme centro commerciale, muore aggredito da due aquile e viene immediatamente divinizzato: «La fine spettacolare di Eliogabalo provoca scroscianti applausi a scena aperta, innumerevoli chiamate, richieste di bis, e trambusti religiosi sublimi con standing ovations». La paradossale apoteosi di questo Eliogabalo letterario sembra voler riscattare la morte degradante dell'Eliogabalo storico.

6. Intervista dalla Cloaca Massima


Nella linea di Artaud e Arbasino si inserisce anche un altro testo contemporaneo: si tratta di una delle Interviste impossibili mandate in onda da Radio Rai a metà degli anni Settanta e recentemente ripubblicate in volume [22]. Tra gli illustri personaggi, storici o letterari, intervistati da protagonisti della cultura contemporanea, compare anche Eliogabalo, interpretato per l'occasione da Paolo Poli; l'intervistatore, nonché autore del dialogo, è Luigi Malerba. L'incontro, trasmesso per radio il 12 aprile 1975, si svolge nella Cloaca Massima e si apre significativamente con una scherzosa rivalutazione del luogo associato alla fine dell'imperatore (p. 160): «Malerba: "È la prima volta che mi trovo di fronte a un imperatore, anche se il luogo scelto per l'incontro non è precisamente una reggia, e certo il meno adatto a ospitare chi porta un nome come il vostro: Eliogabalo. È lo stesso nome del vostro dio Sole adorato nella lontana Siria" Eliogabalo "Vuol dire che si trova a disagio in una fogna? Ma si tratta della Cloaca massima!" Malerba "Capisco, ma è sempre una fogna. Strano luogo per incontrare un imperatore che porta il nome del dio Sole." Eliogabalo "Dal momento che sono stato condannato alle fogne, ho scelto per il nostro incontro la più bella e nobile fogna del mondo, un capolavoro di architettura e di ingegneria idraulica, un'opera stupenda costruita nella grande epoca repubblicana"».
Eliogabalo si presenta dunque come un imperatore filo-repubblicano, un innovatore incompreso, portatore di «una strategia nuova» che – naturalmente – è stata fraintesa da «storici illustri e spregiudicati», a cominciare da Lampridio. Egli dichiara infatti: «Dal momento che non riuscivo a conquistare l'impero romano e a mutarne il volto per mezzo della religione, cercai di metterlo in crisi dall'interno e di accelerare quel processo di dissoluzione che era già avviato da almeno un secolo. Credete di averla inventata voi la contestazione! Il primo contestatore del potere sono stato io e la mia contestazione l'ho fatta da solo, approfittando di una posizione di privilegio quale è il seggio imperiale. Sono certamente il primo imperatore, romano o non romano, che abbia perseguito un disegno politico così rivoluzionario con perfetta coscienza e una lucida visione del futuro. Nessuno più facilmente del nocchiero può mandare a fondo la nave» (p. 162). Contestatore e rivoluzionario, l'Eliogabalo di Malerba è in sintonia con i personaggi di Artaud e di Arbasino, che mostra di conoscere e di apprezzare, ma rispetto ai quali manifesta una più solida coscienza politica e ideologica; infatti quando gli viene chiesto se conosce l'Eliogabalo di Artaud, risponde: «Certamente, l'ho letto varie volte. E conosco anche il Supereliogabalo di Arbasino, se è per questo. Tutti e due questi libri in modo diverso si sono avvicinati alla verità assai più dei libri di storia che sono stati scritti sul periodo del mio impero. Il fatto sorprendente è che gli storici si sono accostati al mio personaggio con indignazione moralistica, mentre gli scrittori mi hanno avvicinato con simpatia o almeno con interesse umano. Artaud, da buon uomo di teatro, ha messo in evidenza il lato teatrale, rituale e religioso del mio comportamento, ma ha dimenticato la finalità politica che lo muoveva dall'interno. Arbasino si è servito del mio personaggio per sostenere una sua sofisticata idea della decadenza, anche questa più letteraria che politica. Ma devo riconoscere, sia nel caso di Artaud che in quello di Arbasino, una novità rispetto ai testi degli storici: sia l'uno che l'altro riconoscono come dietro le mie follie non ci sia un folle, ma un uomo» (pp. 163-164). L'Eliogabalo ideologizzato di Malerba rivendica la scelta dello scandalo come gesto politico per scuotere Roma dalla corruzione – con un chiaro riferimento anche all'attualità. Lo scandalo era la via più breve per fare «esplo­dere le contraddizioni di quel sistema au­toritario che, con la scusa di portare la civiltà e la pace romana alle popolazioni barbare, aveva mosso guerre di conquista contro nazioni inermi, commettendo efferatezze innominabili e i più turpi genocidi». Una civiltà, amministrata in realtà da «una masnada di gente avida e crapulona, grassi mercanti, militari ottusi, governanti corrotti e famelici» (p. 165). L'intento di Eliogabalo sarebbe dunque di trasformare l'impero «in una repub­bli­ca democratica alla maniera dell'antica Grecia, non al­la maniera in cui intendete la democrazia voi posteri» (p. 167).
Da cattivo imperatore a sostenitore della democrazia diretta: non conforme al modello antico di buon imperatore romano, Eliogabalo finisce per integrarsi bene in quello moderno di contestatore del sistema.

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