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        Jolanda Insana - PUPARA SONO da Sciarra amara - Interpreta Sergio Carlacchiani




È morta nella sua casa romana Jolanda Insana. La poetessa era nata a Messina nel 1937, ma viveva a Roma dal 1968. Insana fu scoperta da Giovanni Raboni nel 1977, anno in cui pubblicò nella collana «Quaderno collettivo della Fenice» (Guanda), la raccolta “Sciarra amara”. Nel 2002 aveva vinto il Viareggio per la poesia con “La stortura (Garzanti). Nel 2007 era stato pubblicato ne “Gli elefanti poesia” della Garzanti l’intera sua opera, con l’aggiunta di un poemetto intitolato “La bestia clandestina”. La Insana si era dedicata alla traduzione di vari classici e autori contemporanei, dal greco e dal latino: Saffo, Plauto, Euripide, Alceo, Anacreonte, Ipponatte, Callimaco, Lucrezio, Marziale e del medievista Andrea Cappellano. Aveva inoltre adattato in versi alcune opere di Ahmad Shawqi e Aleksandr Tvardovskij e in più occasioni le sue poesie inedite erano stati pubblicati sul “Messaggero”.

Nei versi di Jolanda lnsana la voce che urla o impreca o sussurra o biascica nuotando nel “liquido amniotico “, è una bella e possente voce che ghiaccia e infuoca, raggruma e scola, rovescia e storpia ogni parola. Lo fa con la sua radicalità che non cede al conformismo della decenza borghese e dell’ipocrisia perbenista, ma si apre ai significati forti e audaci della parola che “sbrama e sbrana”. Questa energia ribelle si era già manifestata con “Sciarra Amara” dove la lingua italiana, contaminata da un dialetto a tratti duro, crea un impasto verbale dirompente e dal significato socio-politico molto chiaro, Non tanto per épater le bourgois come voleva Baudelaire, quanto per scardinare e incrinare l'ottuso conformismo piccolo-borghese dell'Italia degli anni Settanta. Il suo radicalismo la porta a incrinare la relazione fra anima e corpo, a schierarsi dalla parte del corpo. Insana dice che la parola è voce della carne e la poesia è medicina carnale, medicina che cura dalle delusioni senza scappatoie falsamente consolatorie, ma affrontando a testa bassa la vita.

Da questa premessa ne viene fuori una poesia con la caratura della parola vibrante e a tratti aggressiva. Per questo Raboni, ha potuto parlare della “concretezza visionaria” di una voce così densa che si potrebbe tagliare con un coltello se non fosse anch'essa un coltello, una lama per rivoltare e fecondare gli strati del visibile. Questa intensità è presente in “La Stortura”, dove aleggia una sorta d’infermità del corpo e infermità della nazione, anzi del pianeta, che fanno un tutt'uno drammaticamente vessato e dolorante in un poema-monologo nelle cui lasse o variazioni giunge, a un punto davvero decisivo d’incandescenza e di equilibrio e compattezza formale, “uno dei più vividi talenti espressivi suscitati negli ultimi decenni dalla riluttanza a morire della nostra povera, martoriata, meravigliosa lingua italiana".

Il viaggio di Insana è quello di (e dentro) un corpo malato straziato in ogni sua parte e in ogni suo rapporto con il mondo; è lo scavo dentro il dolore e l’infermità come luogo totale dove identificare nell’acceso realismo della visione, una febbre di conoscenza, un’indignazione religiosa (da anatema alla Jacopone) che ancora vuole “abbrancare l’imbrancabile” sulla soglia dell’ambiguità scorticata da un continuo allarme e frana del senso.
“Sono fortunato/ se riesco a muovere la mandibola in avanti”, si confessa la Voce mentre prova se stessa in ogni ampiezza e falsetto, incrociando la crescente fragilità con la malattia da cui è avvolta ogni altra apparenza fuori da sé, natura o nazione o mondo. A cominciare dai “vecchi padri/ incarogniti e ubriachi di viagra”, o dalle “fragole giganti/ alberi metà pino e metà abete nati dopo Cernobyl”.

La parola densa da tagliare con il coltello e l’ infermità del corpo sono ancora presenti ne “La tagliola dell’amore”, ma stavolta la tendenza al timbro secco dell’invettiva, della denuncia, dell’autoaffermazione si lega a una certa elegiaca apertura, a una emozione materica e fisiologicamente descritta. “Oggi posso fare qualcosa io che sono vinta/ e non voglio rivincite e sacrifici”: il linguaggio passionale rifugge spesso le metafore romantiche per concentrarsi nella tensione quasi biologica del sentimento. Una poetica del corpo vibrante che si esprime in visioni dall’umanità corale e a quasi epica con  la parola  così forte e compatta da potere sempre più essere tagliata con un coltello se non fosse anch’essa una lama levigata al fine di poter frantumare e ricomporre i vari livelli della materia e dei sensi . Una poesia accanita, femminilmente accanita e sublimemente selvaggia che fa della descrizione materiale delle emozioni un atto di amore verso la vita, nascosto dentro metafore irte e tremendamente terrene. Voce recitante e ingolfata nella materialità della propria dizione, sembra far leva sulla colata di versi nervosi, tesi, paradossali per circondarsi di un più fondo alone di espressione, per scardinare ogni codice logico «fossa biologica» in cui «precipitano i nomi delle cose».

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