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Un bel ricordo di Silvia Sereni di un grande poeta , Attilio Bertolucci che il 18 novembre 1911, nasceva a Parma; in fondo, una mia declamazione a lui dedicata.

Cappello spostato tutto indietro in modo da lasciare libera la fronte, sorriso aperto, comode giacche pied de poule di buona fattura, Attilio Bertolucci, con la sua aria da gentiluomo di campagna, sembrava il prototipo del borghese tranquilllo, sereno, senza smanie. E così era, da un certo punto vista. Il suo posto era a un tavolo di antica osteria di campagna, all’ombra tremolante di un bersò, oppure in un parco parmigiano, con il soprabito slacciato, o su un sentiero di domestica campagna. Pur essendo, a un certo punto della sua vita, diventato romano, era uomo di spazi aperti, di viottoli erbosi, di aiuole fiorite da guardare dalla finestra di casa. Faceva venire in mente un quadro di Renoir, con la luce che si riflette sui volti, con quel sentore d’aria pulita che permea le atmosfere plein air.
In una di queste occasioni, a tavola, una sera, era così simpatico e divertente che veniva in mente di chiedersi perché non si poteva sempre averlo lì, accanto a sé, in famiglia. Stava raccontando con ilare bonomia un aneddoto. Ninetta, l’amata compagna di una vita, la presenza a cui visibilmente non voleva rinunciare mai per nessun motivo, lo anticipava, raccontando dettagli, precisando fatti. «Ma no! Questo glielo dico dopo!», protestava lui. «Questo va detto dopo!». Non voleva che in nessun modo venisse guastato un certo climax che aveva deciso dovesse accompagnare la narrazione. Amava il romanzo, lo stile del romanzo, lo svelamento al momento giusto, il buon finale. Anche se scriveva poesie, tra cui, per altro, quel romanzo in versi che è, a parere di tutti, La camera da letto.
Aveva quell’ironia sottile, implicita, che viene dall’intelligenza, oltre che da buone e solide letture. Alla domanda giornalisticamente banale, di cosa pensava delle tante celebrazioni che gli stavano tributando (per i 70 anni? Chissà), la risposta, data in modo affettuoso, affabile, era stata: «Sai come dicono a Parma, se a un certo punto qualcosa entra sotto l’attenzione di tutti: Dag a col can! Così è successo a me, non appena un giornale ha cominciato, gli sono andati tutti dietro». E, a proposito di cosa pensava di suo figlio Giuseppe: «Eh, immagina cosa dev’essere stato per lui. Oltre a me, trovarsi davanti anche suo fratello Bernardo. Doppio carico da affrontare». Lettore accanito di Proust, le dinamiche famigliari gli erano ben presenti, e gli bastava una parola per far immaginare tutto il mondo che stava dietro una condizione.
La famiglia del resto, l’ha scritto ben chiaro lui stesso, citando, per contrasto, Gide («scrittore leggibilissimo, quindi inutile a leggersi»), che aveva decretato: «Io vi odio, famiglie», era per lui necessaria quanto l’aria, solo nella sua famiglia si era sentito bene, al sicuro, sempre, dall’inizio alla fine. La pensava come Joyce («supremamente illeggibile, quindi da leggere»), che diceva: «Io non ho amato altro al mondo che la mia famiglia».
Eppure, dietro la facciata tranquilla, solare, c’era il male di vivere, un grumo oscuro di disagio, di inquietudine. Era lui a dirlo, a vederlo non si sarebbe detto mai. Lo dicevano, solo per vaghi, misteriosi, accenni, gli amici più intimi. Fin da ragazzo, ha scritto, a dispetto della sua faccia tutta salute e giocondità, il suo petto era di tanto in tanto agitato da brevi colpi in successione, simili a farfalle che cercano di uscir fuori. Le chiamava aritmie, sintomi di una nevrastenia, di un malessere nascosto ma sempre incombente, una sospesa minaccia simile alla strega che può irrompere all’improvviso per guastare la festa. Ma come poteva mancare, questa presenza? La sua poesia era fatta di rose, di erba, di acqua, di farfalle, di nuvole, ma era poesia, quindi era fatta anche di ombra, di dolore, di solitudine, di paure. Di cos’altro parla la poesia se non della vita, che lui definiva come corsa che dura da quando siamo nati, e, quindi, della morte, dato che quella corsa arriva, inevitabilmente, a uno stop? Ma qui occorre fermarsi, perché la sua poesia, come ogni creazione che raggiunge una sua autonomia di opera d’arte, quindi non più legata alla persona che l’ha prodotta, va oltre l’Attilio che ha vissuto con noi su questa terra, che ancora possiamo ricordare. Si può solo aggiungere che una cosa come la poesia, se destinata a durare, è il miglior antidoto alla morte, e lui, Attilio, speciale custode di attimi («D’ogni istante la mente si innamora», dice un verso de “La capanna indiana”), questo antidoto lo aveva trovato.




                               Attilio Bertolucci " L' inverno " Interprete: Sergio Carlacchiani

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